Il nuovo Codice Antimafia finalmente risolve tanti nodi che hanno afflitto fino a qui la confisca dei patrimoni criminali. Lo ha detto il CSM e con la stessa chiarezza lo ha detto il Procuratore Nazionale Anti mafia Roberti. Mente, sapendo di mentire chi dice che d’ora innanzi basterà un semplice indizio di colpevolezza per vedersi confiscare l’azienda: l’indizio di colpevolezza è soltanto l’innesco delle verifiche patrimoniali. Il sequestro scatta solo quando un giudice terzo conferma che il sospettato ha nella disponibilità un patrimonio di provenienza illecita. Con tutta la corruzione organizzata che corrode il nostro Paese quotidianamente è davvero curioso sentire quelli che si dichiarano contro la corruzione ma poi fanno mille distinguo e votano contro. Abbiamo potenziato l’Agenzia Nazionale, abbiamo moltiplicato gli strumenti a sostegno della gestione di immobili e aziende, abbiamo aumentato le garanzie per il proposto e per i terzi di buona fede, abbiamo reso l’amministrazione giudiziaria più trasparente e rigorosa. Abbiamo fatto arrivare ad approvazione una proposta di legge di iniziativa popolare e abbiamo tradotto in legge le regole di rigore applicate dal Presidente del Parco Nebrodi Antoci e le proposte della Commissione Antimafia. Insomma c’è di che essere soddisfatti.
Quattro anni sono passati da quando questo lavoro è cominciato con l’incardinamento della proposta di legge di iniziativa popolare 1138 in Commissione Giustizia alla Camera. Poi vennero l’inchiesta della Commissione Antimafia, che produsse una articolata proposta di riforma, e il contributo del Governo a partire dal ddl Orlando dell’agosto del 2014
Era l’11 Novembre del 2015, quando a larga maggioranza la Camera approvava in prima lettura il testo che oggi arriva nuovamente alla attenzione dell’Aula, dopo che il Senato lo ha licenziato con modifiche il 6 di Luglio.
Vediamo allora subito le modifiche più significative apportate al testo, che sono tre:
– l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati resta sotto la vigilanza del Min. Interno come è attualmente, mentre noi l’avevamo collocata sotto la vigilanza della Presidenza del Consiglio.
– nell’art. 1 il riferimento agli indiziati di reati contro la PA resta, ma collegato al 416 (associazione semplice)
– agli articoli 25-28 è stata estesa la portata della certificazione prefettizia anti mafia con particolare riguardo alla concessione dei terreni agricoli, prevedendo che “L’informazione antimafia sia sempre richiesta nelle ipotesi di concessione di terreni agricoli demaniali che ricadono nell’ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, a prescindere dal loro valore complessivo, nonché su tutti i terreni agricoli, a qualunque titolo acquisiti, che usufruiscono di fondi europei”. Ho voluto leggere per esteso questa norma in particolare perchè è la traduzione in Legge della ottima pratica adottata dal Presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, a causa della quale lo stesso ha subito il gravissimo attentato che ricordiamo.
Le modifiche sono state approfondite e discusse, per tanto le ritengo oltre che ragionevoli, apprezzabili. Come ha ribadito il Ministro Orlando intervenendo personalmente nella discussione svoltasi in Commissione Giustizia la scorsa settimana, il giudizio sulla riforma va elaborato tenendo uno sguardo di insieme su tutti e 38 gli articoli, che complessivamente si fanno carico tanto della esigenza di maggior efficacia nella individuazione e aggressione dei patrimoni illeciti, quanto di quella di maggior tutela per i soggetti coinvolti a vario titolo nella procedura: il proposto, i lavoratori, i terzi in buona fede
E’ chiaro a tutte le forze politiche che dopo 4 anni di lavoro oggi il punto è decidere se licenziare il testo così come ci è arrivato dal Senato, facendolo diventare legge, oppure sprecare questa occasione. In questa prospettiva abbiamo valutato gli emendamenti proposti in Commissione e valutiamo quelli presentati in Aula: non c’è spazio per emendare ancora e rimandare in Senato. Chi facesse finta di non capirlo si assumerebbe una responsabilità gravissima. Per questo come relatore ho chiesto e chiedo il ritiro di ogni emendamento.
In democrazia c’è un tempo per discutere, e lo abbiamo usato eccome, in ogni sede, ma poi arriva il tempo per decidere.
Questo è quel tempo.
Noi oggi vogliamo decidere, consapevoli che un testo così complesso è sempre migliorabile, ma anche consapevoli del fatto che una democrazia che discuta per anni e poi non arrivi a decidere, tradisce se stessa e apre le porte al dispotismo. Tradimento che in questo caso specifico, si tradurrebbe nella perdita di credibilità sull’esiziale terreno del contrasto alla criminalità organizzata.
Esistono per altro ragioni molto concrete per fare di questo testo, Legge senz’altro. All’articolo 34 per esempio, la riforma prevede una importante e delicata delega al Governo sulle misure da definire a sostegno dei lavoratori di imprese sequestrate e giudicate capaci di stare sul mercato. La delega ha bisogno di tempo, pur breve, per essere esercitata, altrimenti andrà in fumo.
Credo che dopo 4 anni di lavoro tutte le forze politiche dovrebbero poter ritenere il testo frutto di una mediazione positiva nella quale riconoscersi, anche chi in prima lettura aveva mosso critiche e aveva votato contrariamente.
Al movimento 5 stelle dico: sulla questione della trasparenza nella gestione di tutto il procedimento e segnatamente nell’affidamento degli incarichi agli amministratori giudiziari, le viti sono state strette anche accogliendo vostre proposte. Per altro alcune di queste norme vanno specificate tempestivamente esercitando un’altra delega, quella di cui all’articolo 33.
A chi, soprattutto nel centro destra, si è preoccupato per una eccessiva attenzione verso le aziende sequestrate, denunciando il rischio di una distorsione della libera concorrenza, dico: non un euro pubblico sarà speso per le aziende finte o incapaci di stare sul mercato senza la spinta mafiosa, saranno liquidate.
A chi si è preoccupato che l’estensione della platea dei soggetti cui possano essere applicate le misure di prevenzione patrimoniali si traduca in una soffocante ingerenza dello Stato nel mercato, dico: al contrario, la riforma non soltanto amplia l’istituto della amministrazione giudiziaria non finalizzata all’ablazione del bene-azienda, ma introduce finalmente l’istituto del controllo giudiziario che oltre ad evitare l’ablazione, evita anche lo spossessamento in fase di sequestro. Un modo per intervenire chirurgicamente a tutela dell’attività di impresa, almeno fino a quando ve ne siano le condizioni.
A chi, concedendo un po’ troppo alla vis polemica, ha cercato di agitare l’opinione pubblica affermando che con questa riforma basterà un semplice indizio di corruzione per vedersi confiscare l’azienda, la casa e il conto in banca, dico: vi sbagliate e soprattutto inducete all’errore! Il meccanismo della prevenzione patrimoniale considera la pericolosità sociale del soggetto soltanto come “innesco”, come condizione inizialmente necessaria, ma non sufficiente: infatti soltanto l’esito della indagine patrimoniale che metta in evidenza l’illecita provenienza del patrimonio ovvero la sua sproporzione rispetto a reddito dichiarato ed attività economica svolta, giustificherà il provvedimento di sequestro. Addirittura possiamo spingerci a dire che la presunta pericolosità sociale del soggetto è una condizione necessaria SOLTANTO inizialmente, prova ne è che il procedimento di confisca continua anche nei confronti del patrimonio imputabile alla persona meno pericolosa che esista in natura: il morto!
La pericolosità sociale del soggetto è condizione necessaria e sufficiente soltanto per l’applicazione delle misure di prevenzione PERSONALI e non di quelle patrimoniali: spero che il punto sia chiaro. Ed è per questo motivo che è condivisibile l’inserimento all’art. 4 del reato di cui all’art. 612 bis, cioè lo “stalking”: l’art. 4 fa riferimento alle misure di prevenzione personali disposte dall’autorità giudiziaria, che non di per se’ appunto, si traducono in misure di prevenzione patrimoniale, pur essendo richiamato dall’art. 16. Ben vengano quelle personali per lo “stolker”! Abbiamo un tragico ritardo ancora in parte da colmare in materia.
A chi ha manifestato la serie preoccupazione che l’allargamento della platea dei soggetti a cui possano applicarsi le misure di prevenzione patrimoniale, possa esporre la normativa a nuove censure da parte della Corte Costituzionale o della Giustizia europea, dico: comprendo la preoccupazione, ma la riforma si fa carico delle censure del passato, risolvendole. Intanto perché alcune di quelle censure, come quelle contenute nella sentenza De Tommaso, pretendevano una maggiore attenzione al sacrosanto principio della prevedibilità delle condotte che vengono sanzionate, riconoscendo per altro piena legittimità al meccanismo della prevenzione. Sul punto rimando al preciso parere formulato dalla I Commissione. Ma a questa pretesa abbiamo risposto individuando le ulteriori condotte attraverso il richiamo puntuale delle fattispecie di reato corrispondenti, le quali per definizione garantiscono un sufficiente grado di tipizzazione e quindi di prevedibilità. Altre censure invece hanno nel tempo riguardato il meccanismo della procedura di applicazione della prevenzione patrimoniale, ritenuto eccessivamente comprimente le ragioni del proposto e dei terzi di buona fede. Queste censure pretendevano una maggiore attenzione al contraddittorio, alla posizione dei terzi di buona fede, alla certezza dei tempi e alla chiarezza degli esiti della procedura medesima. Ed è esattamente in questa direzione che abbiamo lavorato: la parte più corposa e meno discussa della riforma è proprio quella che interviene sulle competenze giurisdizionali, sui tempi, sulle impugnazioni, sulla tutela dei terzi di buona fede, sul rapporto tra procedura di prevenzione e sequestro di natura penale, sul rapporto tra procedura di prevenzione e di esecuzione fallimentare.
A chi ha espresso perplessità sulla estensione dell’articolo 1 agli indiziati di reati contro la PA quando esista anche l’indizio della associazione per delinquere, come ha fatto autorevolmente il Presidente dell’ANAC Cantone, dico: faccio mia la preoccupazione di un utilizzo abnorme di questa previsione e credo che sarà doveroso monitorare la norma ed intervenire tempestivamente per perfezionarla. Lo dico con la serenità di chi è consapevole che in questi quattro anni il Partito Democratico e la maggioranza, in piena sintonia con il Governo, hanno alzato gli scudi contro la corruzione, intanto istituendo la stessa ANAC, ma poi anche aumentando le pene, allungando i termini di prescrizione, prevedendo sconti a chi rompa il patto scellerato collaborando con la giustizia e la confisca penale obbligatoria.
Certo mi conforta sia su questo ultimo punto specifico, sia sul complesso del lavoro che il Parlamento ha svolto fino a qui, il giudizio favorevole del Procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Franco Roberti e il fatto che il 13 Settembre il CSM, normalmente critico nei confronti del Legislatore, abbia approvato una delibera che dedica alla riforma del Codice decine di pagine di analisi e conclude con un inequivocabile invito ad approvarla così com’è, riconoscendo che il testo scioglie diversi nodi da anni lamentati dagli operatori del settore. Non un cenno nelle oltre 40 pagine all’articolo 1. E, come ha fatto notare il Ministro Orlando in Commissione Giustizia, non certo per una forma di amnesia o di cortesia Istituzionale.
Infatti c’è un punto sul quale il CSM mantiene un dissenso e non voglio eluderlo: i beni confiscati secondo la nostra riforma, su questo coincidente tra Camera e Senato, passano nella gestione della Agenzia dopo la confisca di secondo grado, mentre il CSM avrebbe preferito una secca anticipazione, funzionale a sollevare la magistratura da una incombenza ritenuta per alcuni aspetti eccessiva. Intanto voglio chiarire che i motivi di questo dissenso li trovo legittimi, considerato il carico di lavoro delle sedi giudiziarie e aggiungo che abbiamo inteso farcene carico, esplicitando che l’Agenzia debba avere un ruolo di supporto dell’Autorità Giudiziaria fin dal sequestro, estendendo a tal fine il ventaglio degli strumenti per realizzare gestioni provvisorie dei beni fin dal sequestro medesimo. Ma voglio anche rivendicare la ragione politica di questa scelta. La storia di un bene confiscato comincia generalmente dalla così detta “proposta” e finisce con il suo riutilizzo pubblico, passando per sequestro, confisca di primo grado, confisca di secondo grado, confisca definitiva, destinazione, assegnazione, controllo dell’utilizzo. Le maggiori criticità che abbiamo evidenziato nel nostro lavoro di inchiesta, si sono concentrate soprattutto nelle fasi di destinazione/assegnazione e controllo dell’utilizzo. Quanto volte, purtroppo, ci siamo lamentati del numero eccessivo di beni confiscati ormai definitivamente e non assegnati, che restano per anni in stato di abbandono, spesso vandalizzati o occupati abusivamente. Quante volte, purtroppo ci siamo lamentati di beni concessi in utilizzo a soggetti istituzionali o sociali che si scoprono poi lasciati andare alla malora. Ecco, abbiamo voluto con la nostra scelta ribadire che l’Agenzia nasce prima di tutto per gestire queste fasi della storia di un bene: destinazione/assegnazione e controllo. L’idea di una Agenzia Nazionale infatti comincia a manifestarsi proprio quando si impone nella opinione pubblica il valore del riutilizzo sociale dei patrimoni illeciti confiscati: “La mafia restituisce il maltolto” era lo slogan con il quale Libera raccoglieva nel 1995 oltre un milione di firme per quella che sarebbe diventata la legge 109 del ’96. Sull’onda di questa consapevolezza civica, maturerà il bisogno di un soggetto istituzionale, deputato a gestire il patrimonio confiscato, inverando la promessa della 109: la ricchezza sottratta al crimine, diventa risorsa per la collettività. L’Agenzia, fondata nel 2010, è il frutto di questo bisogno e deve poter svolgere fino in fondo questo mandato. Tutto ciò posto, abbiamo finalmente provveduto a potenziare anche l’organico della Agenzia e le risorse economiche a disposizione del direttore, che in futuro, a riforma approvata, potrà anche non essere più un prefetto.
Per intanto però fatemi ringraziare i Prefetti con i quali ho avuto modo di collaborare in questi anni, che hanno dato e danno un importante contributo anche alla elaborazione parlamentare nel loro ruolo di direttori della Agenzia: Umberto Postiglione, che ha terminato l’incarico nella scorsa primavera e Ennio Sodano, che lo ha sostituito.
In conclusione Presidente, vorrei approfondire una questione che ha segnato il dibattito attorno a questa riforma.
Sarà vero che il sistema della prevenzione patrimoniale si giustifica se e soltanto se rimane formalmente agganciato alla fattispecie del 416 bis? Detto altrimenti: il sistema di prevenzione patrimoniale, si giustifica soltanto se ancorato alla eccezionalità del così detto “doppio binario”, a sua volta legato alla emergenza mafiosa, come tale specifica, non estensibile e fatalmente transitoria? Per tanto mollando questo aggancio formale si snaturerebbe il sistema, sottoponendolo anche alle censure della giurisprudenza costituzionale italiana ed europea?
Io non credo.
La prova sta nella storia stessa di questo strumento.
E’ vero che per Pio La Torre e per coloro che lo coadiuvarono nella elaborazione della legge che vedrà la luce soltanto dopo l’assassinio suo e del generale Dalla Chiesa, reato di associazione mafiosa e confisca di prevenzione dei patrimoni illeciti nella disponibilità della medesima organizzazione, furono due facce della stessa medaglia.
E’ quella la legge, la 646 del 1982, che “inventa” il 416 bis ed è quella la Legge che introduce la confisca di prevenzione fondata sull’indizio di appartenenza alla mafia e la provenienza illecita del patrimonio nella disponibilità del medesimo indiziato. Ma è altrettanto vero che in tre distinti interventi legislativi, il primo dei quali risalente alla maledetta estate del ’92, i presupposti di applicazione della confisca di prevenzione si allargarono progressivamente, ma coerentemente, arrivando a comprendere da un lato il meccanismo della così della confisca allargata ex 12 sexties, e dall’altro tutte le fattispecie di reato considerate dall’art. 51 com. 3 bis del CPP.
Non si è sfasciato niente, perché sono state evoluzioni coerenti a due principi.
Primo: le organizzazioni di stampo mafioso mutano le proprie strategie di accumulazione e quindi è fondamentale aggiornare il catalogo di quelle condotte “spia” che possono essere considerate rivelatrici di un movimento mafioso.
Secondo, che mi sta particolarmente a cuore, è che mafiosi si può anche diventare col tempo, ammesso di averne la volontà e la possibilità. Non dobbiamo pensare alle organizzazioni mafiose soltanto come ad organizzazioni “date”, cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita, che al più cambiano strategie di accumulazione, perché questa è soltanto una parte del problema. Dobbiamo pensare che “mafioso” è un particolare modo di organizzare il crimine, quello che si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo, capace di generare omertà e assoggettamento e che questo modo mafioso di fare crimine, essendo molto efficace, può essere imparato ed applicato da associazioni criminali che inizialmente nulla hanno a che fare con le organizzazioni mafiose storicamente date, ne’ con il metodo medesimo.
Soprattutto per questo secondo principio del ragionamento sono convinto che abbiamo fatto bene ad estendere l’applicabilità agli indiziati di reati contro la PA, con l’aggiunta del 416.
Non tanto quindi perché le mafie, come ormai siamo soliti dire, sparano di meno e corrompono di più: se fosse soltanto questo il punto, probabilmente avremmo potuto intervenire in maniera più limitata sul testo vigente. Ma perché chi oggi corrompe in maniera sistemica si sta seriamente candidando ad organizzare un potere criminale che se lasciato evolvere, potrà trasformarsi in una vera e propria nuova mafia. Credo che stiamo assistendo a forme sofisticate di nuova accumulazione proto-mafiosa, fondate sull’illecito dirottamento della volontà pubblica a beneficio di interessi particolari. Credo che queste nuove organizzazioni criminali costruiscano il proprio potere soprattutto sulla captazione da remoto di informazioni sensibili, funzionali alla pianificazione di un capillare e pericolosissimo sistema estorsivo, al quale con ogni probabilità fa e farà seguito un significativo cedimento dei soggetti ricattati, che produrrà come conseguenza il moltiplicarsi di comportamenti di connivenza e indebita convenienza, di natura appunto corruttiva.
Resta con tutto ciò vera la lezione di Pio La Torre: la mafia è questione di classi dirigenti. Soltanto che la classe dirigente che aveva negli occhi Pio La Torre ancorava il suo potere alla terra e al calcestruzzo, la nuova frontiera dell’organizzazione del potere mafioso è e sarà ancorata alle banche dati.
Per questo vicende come il disastro provocato dal virus “Wannacry”, l’inchiesta “Occhionero”, l’inchiesta sulla così detta “P4”, i Panama Papers, fino ai più recenti attacchi hacker alla banca dati del Ministero degli Esteri sono vicende assai sintomatiche. Per questo abbiamo ancora molto da studiare e da capire di quel fenomeno criminale, eversivo, sostanzialmente impunito e a lungo irrisolto attraverso mille rivoli carsici, che è stato la P2. Per questo non può essere disgiunto il tema che ci occupa da quello della riforma della così detta Legge Anselmi.
La democrazia vive soltanto attraverso un costante, paziente e tenace lavoro di bonifica delle sue infrastrutture portanti: la politica e l’economia. Come un sistema vascolare che se non manutenuto si riempie di colesterolo fino a collassare, così queste infrastrutture rischiano di venire ingombrate dal colesterolo di mafia e corruzione. Ecco, con questa riforma noi rendiamo più forti gli strumenti con i quali bonificare le nostre infrastrutture portanti e far vivere più a lungo e meglio la Repubblica italiana.
sono lieto di accogliervi e ringrazio la Presidente della Commissione, Onorevole Bindi, per le sue cortesi parole.
Anzitutto desidero rivolgere il pensiero a tutte le persone che in Italia hanno pagato con la vita la loro lotta contro le mafie. Ricordo, in particolare, tre magistrati: il servo di Dio Rosario Livatino, ucciso il 21 settembre 1990; Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, uccisi 25 anni fa insieme a quanti li scortavano.
Mentre preparavo questo incontro, mi passavano nella mente alcune scene evangeliche, nelle quali non faremmo fatica a riconoscere i segni di quella crisi morale che oggi attraversa persone e istituzioni. Rimane sempre attuale la verità delle parole di Gesù: «Ciò che esce dall’uomo è quello che rende impuro l’uomo. Dal di dentro infatti, cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza. Tutte queste cose cattive vengono fuori dall’interno e contaminano l’uomo» (Mc 7,20-23).
Il punto di partenza rimane sempre il cuore dell’uomo, le sue relazioni, i suoi attaccamenti. Non vigileremo mai abbastanza su questo abisso, dove la persona è esposta a tentazioni di opportunismo, di inganno e di frode, rese più pericolose dal rifiuto di mettersi in discussione. Quando ci si chiude nell’autosufficienza si arriva facilmente al compiacimento di sé e alla pretesa di farsi norma di tutto e di tutti. Ne è segno anche una politica deviata, piegata a interessi di parte e ad accordi non limpidi. Si arriva, allora, a soffocare l’appello della coscienza, a banalizzare il male, a confondere la verità con la menzogna e ad approfittare del ruolo di responsabilità pubblica che si riveste.
La politica autentica, quella che riconosciamo come una forma eminente di carità, opera invece per assicurare un futuro di speranza e promuovere la dignità di ognuno. Proprio per questo sente la lotta alle mafie come una sua priorità, in quanto esse rubano il bene comune, togliendo speranza e dignità alle persone.
A tale scopo, diventa decisivo opporsi in ogni modo al grave problema della corruzione che, nel disprezzo dell’interesse generale, rappresenta il terreno fertile nel quale le mafie attecchiscono e si sviluppano. La corruzione trova sempre il modo di giustificare sé stessa, presentandosi come la condizione “normale”, la soluzione di chi è “furbo”, la via percorribile per conseguire i propri obiettivi. Ha una natura contagiosa e parassitaria, perché non si nutre di ciò che di buono produce, ma di quanto sottrae e rapina. È una radice velenosa che altera la sana concorrenza e allontana gli investimenti. In fondo, la corruzione è un habitus costruito sull’idolatria del denaro e la mercificazione della dignità umana, per cui va combattuta con misure non meno incisive di quelle previste nella lotta alle mafie.
Lottare contro le mafie significa non solo reprimere. Significa anche bonificare, trasformare, costruire, e questo comporta un impegno a due livelli. Il primo è quello politico, attraverso una maggiore giustizia sociale, perché le mafie hanno gioco facile nel proporsi come sistema alternativo sul territorio proprio dove mancano i diritti e le opportunità: il lavoro, la casa, l’istruzione, l’assistenza sanitaria.
Il secondo livello di impegno è quello economico, attraverso la correzione o la cancellazione di quei meccanismi che generano dovunque disuguaglianza e povertà. Oggi non possiamo più parlare di lotta alle mafie senza sollevare l’enorme problema di una finanza ormai sovrana sulle regole democratiche, grazie alla quale le realtà criminali investono e moltiplicano i già ingenti profitti ricavati dai loro traffici: droga, armi, tratta delle persone, smaltimento di rifiuti tossici, condizionamenti degli appalti per le grandi opere, gioco d’azzardo, racket.
Questo duplice livello, politico ed economico, ne presuppone un altro non meno essenziale, che è la costruzione di una nuova coscienza civile, la sola che può portare a una vera liberazione dalle mafie. Serve davvero educare ed educarsi a costante vigilanza su sé stessi e sul contesto in cui si vive, accrescendo una percezione più puntuale dei fenomeni di corruzione e lavorando per un modo nuovo di essere cittadini, che comprenda la cura e la responsabilità per gli altri e per il bene comune.
L’Italia deve essere orgogliosa di aver messo in campo contro la mafia una legislazione che coinvolge lo Stato e i cittadini, le amministrazioni e le associazioni, il mondo laico e quello cattolico e religioso in senso lato. I beni confiscati alle mafie e riconvertiti a uso sociale rappresentano, in tal senso, delle autentiche palestre di vita. In tali realtà i giovani studiano, apprendono saperi e responsabilità, trovano un lavoro e una realizzazione. In esse anche tante persone anziane, povere o svantaggiate trovano accoglienza, servizio e dignità.
Infine, non si può dimenticare che la lotta alle mafie passa attraverso la tutela e la valorizzazione dei testimoni di giustizia, persone che si espongono a gravi rischi scegliendo di denunciare le violenze di cui sono state testimoni. Va trovata una via che permetta a una persona pulita, ma appartenente a famiglie o contesti di mafia, di uscirne senza subire vendette e ritorsioni. Sono molte le donne, soprattutto madri, che cercano di farlo, nel rifiuto delle logiche criminali e nel desiderio di garantire ai propri figli un futuro diverso. Occorre riuscire ad aiutarle, nel rispetto, certamente, dei percorsi di giustizia, ma anche della loro dignità di persone che scelgono il bene e la vita.
Esortandovi, cari fratelli e sorelle, a portare avanti con dedizione e senso del dovere il compito a voi affidato per il bene di tutti, invoco su di voi la benedizione di Dio. Vi conforti la certezza di essere accompagnati da Lui che è ricco di misericordia; e la consapevolezza che Egli non sopporta violenza e sopruso vi renda instancabili operatori di giustizia. Grazie.
Clicca sulla timeline interattiva per scoprire le tappe della riforma del Codice Antimafia. Vogliamo che sia approvata #adesso, quando andrà in aula il 25 settembre, perché non c’è più tempoClicca sulla nostra timeline interattiva per scoprire le tappe della riforma del Codice Antimafia. Vogliamo che sia approvata #adesso, quando andrà in aula il 25 settembre, perché non c’è più tempo
Verranno votati domani in Commissione Giustizia gli emendamenti presentati al codice Antimafia che dal 25 settembre prossimo ritornerà all’esame dell’aula della Camera. Oggi gli esponenti di Ncd e Sinistra Italiana hanno dichiarato in Commissione di non aver presentato emendamenti affinché il testo del codice possa essere approvato al più presto e senza ulteriori modifiche dall’aula della Camera. Continuano a rimanere critici i Cinque Stelle. Il relatore, Davide Mattiello (Pd) ha chiesto il ritiro degli emendamenti che quindi domani, se non ritirati, verranno bocciati. L’approvazione definitiva del nuovo codice antimafia, se non ci saranno intoppi potrebbe avvenire nella prima settimana di ottobre.
Il presidente Grasso fa bene ad insistere, ma ci sono almeno due questioni.
La prima: servirebbe una Commissione parlamentare che metta ordine e renda conoscibile l’immenso lavoro che è già stato fatto. Prima di tutto il lavoro fatto dalle Commissioni di inchiesta parlamentari che si sono stratificate nei decenni, tanto sulle stragi terroristiche, quanto sulla mafia, senza trascurare il monumentale lavoro della Commissione Anselmi sulla P2, che resta uno degli snodi ineludibili della storia repubblicana. La sostanziale impunità dei protagonisti delle trame piduiste è in diretto collegamento con i fatti eversivo-mafiosi del ’90-’94 e quindi con gli attuali assetti di potere. Non soltanto. Bisognerebbe poi recuperare, ordinare e rendere accessibile allo studio il materiale prodotto in sede giudiziaria: la storia di ciascun processo che ha esplorato le responsabilità penali su fatti di mafia e stragi è importante almeno quanto le sentenze che sono state procurate. Ne abbiamo avuto un recentissimo saggio ascoltando il dott. Di Matteo in Commissione Antimafia pochi giorni fa, parlare dei primi tre processi sulla strage di Via D’Amelio. Diversamente il rischio è quello di precipitare nell’incubo di “Sisifo”, ricominciando sempre daccapo, condannati a non venirne mai a capo. Ma poi c’è un’altra questione, che questo Paese dovrebbe prima o poi porsi, diventando progressivamente sempre più difficile la formazione della prova nei processi a causa del passare del tempo: la ricerca della verità su quei decenni può essere disgiunta dalla attribuzione di responsabilità penali ai protagonisti delle vicende medesime? In Italia si è combattuta una guerra che almeno in parte è terminata nel 1994, è possibile che la verità sia considerata in se’ stessa una forma di giustizia verso le vittime, le loro famiglie e il Paese intero?
Il dott. Di Matteo ha ragione sulla questione centrale che pone: oggi c’è chi ha interesse a dare un peso eccessivo ad alcuni aspetti della vicenda Scarantino, per metterne altri in ombra. Una specie di depistaggio della attenzione di massa. E’ vero: esiste la questione di chi e quando si è accorto o no che Scarantino fosse una fonte in gran parte inquinata e su questo punto vale senz’altro la precisazione nuovamente fatta dal dott. Di Matteo su cosa sia successo a tal proposito già nel Borsellino bis e nel Borsellino ter, l’unico seguito interamente dal dott. Di Matteo, cioè a prescindere da ciò che dirà 10 anni dopo Spatuzza. Ma è vero e ha ragione su questo Di Matteo, che altre questioni rischiano di restare schiacciate e rimosse: Scarantino venne “imboccato” nell’estate del ’92 probabilmente anche con informazioni fondate, perché e da chi? Nessuna risposta è più possibile dopo le recenti archiviazioni? Le dichiarazioni di Cancemi già nel ’96 avevano indicato la pista delle relazioni tra mafia e la politica nel combinare le stragi, pista che poi riprenderà Spatuzza nel 2008 e più recentemente lo stesso Graviano, intercettato in carcere. Questa pista per altro mi pare essere quella sistematicamente battuta e illuminata dalla DNA nel periodo in cui venne presieduta da Grasso: faccio riferimento ai diversi atti di impulso che tra il 2007 e fino al 2012 vennero inviati alle varie Procure che indagavano sul periodo stragista. Oggi in particolare la DDA di Reggio Calabria che nel mese di Luglio ha ottenuto la OCC nell’ambito della operazione ‘ndrangheta stragista pare quella che, insieme alla DDA di Palermo, stia cercando di sviluppare questa pista. E’ una pista scomoda, inquietante, che dovrà passare al vaglio del giudizio dei Tribunali, ma è una pista necessaria. In tal senso sono anche soddisfatto di avere appreso che l’Ufficio di Presidenza della Commissione Parlamentare ha accolto la mia proposta di raccogliere la documentazione legata a Giovanni Aiello. Dove non arriverà la verità giudiziaria, almeno potrà arrivare quella storica.
17 mesi dal suicidio di Omar Pace e ancora nessuna risposta dalla Procura di Roma. Purtroppo questa vicenda drammatica assomiglia sempre di più a quella del capitano della Guardia di Finanza Fedele Conti, che nella notte tra il 26 e il 27 settembre del 2006, si toglieva la vita a 44 anni. Per la magistratura il caso è chiuso, archiviato come suicidio per motivi passionali di una persona debole di mente. Insomma: un’altra persona depressa, che però non sembrava depressa affatto a chi lo aveva conosciuto bene. Il Capitano Felice Conti era un finanziere speciale, come il Tenente Colonnello Omar Pace: aveva già operato a Catania; poi era passato a Napoli, dove si era occupato dei più pericolosi clan dediti al riciclaggio dei colossali proventi derivanti dai traffici di cocaina lungo l’asse Napoli-Spagna. Poi Conti era passato a Roma e subito si era trovato ad indagare sui cosiddetti “furbetti del quartierino”. Quindi era arrivato al comando delle Fiamme Gialle di Fondi, asse strategico degli affari incrociati delle cosche di mezzo Sud, un vero e proprio centro di potere, caratterizzato dalla attività del MOF. Occuparsi del quale è pericoloso ancora oggi come dimostra il recente articolo-denuncia di Marco Omizzolo. Una vicenda, quella di Conti, che evoca in più di una circostanza quella di Pace. Sullo sfondo inchieste che hanno a che fare con il potere politico. Mi rendo conto che i tempi della giustizia sono del tutto indipendenti da quelli della politica, ma questa Legislatura e in particolare l’attività della Commissione parlamentare antimafia, sono state segnate da un ciclo di avvenimenti oggettivamente collegati tra loro, anche se non sappiamo fino in fondo in quale modo, senz’altro rilevanti per la lettura che la Commissione deve saper fare delle dinamiche di potere: l’inizio della latitanza a Dubai di Matacena nell’Agosto del 2013, la coincidente irreperibilità di Speziali in Libano, le denunce di Paolo Costantini allora capo centro AISE ad Abu Dhabi, le evoluzioni della inchiesta Breakfast, la morte di Omar Pace nell’Aprile del 2016, fino a quella di Giovanni Aiello il 21 Agosto, indagato dalla Procura di Reggio Calabria, nell’ambito del meritorio sforzo ricostruttivo dei rapporti tra mafie, politica, massoneria, estrema destra, apparati di sicurezza, in quello scorcio di anni, 90-94, così decisivo per gli assetti di potere che stiamo vivendo ancora oggi. Per tutto ciò sarebbe per noi, parlamentari componenti della Commissione Antimafia, un vero peccato terminare il mandato senza avere la possibilità di una valutazione più approfondita di questi fatti. La memoria è una materia tanto importante quanto evanescente.
L’improvvisa morte di Giovanni Aiello, indagato sia dalla Procura di Reggio Calabria che dalla Procura Generale di Palermo, determinando l’uscita dai processi dello stesso, credo ci solleciti ad impegnarci affinché si raccolga in maniera completa quanto negli anni prodotto dalla Autorità Giudiziaria e dalla Polizia giudiziaria avente ad oggetto l’Aiello, perché sia possibile una rilettura approfondita e una valutazione sul piano storico di ciò che sarà così messo a disposizione della Commissione parlamentare.
In particolare e a solo titolo di esempio, lasciando nel caso ai nostri funzionari e consulenti il dettaglio della disamina, propongo che siano acquisiti gli atti di impulso della DNA relativi al periodo in cui Procuratore Nazionale è stato il presidente Grasso, verificando se esista qualcosa di pertinente anche nel periodo precedente, le reazioni delle Procure destinatarie di questi atti di impulso, con particolare riferimento alle richieste di archiviazione di Catania, Caltanisetta e Palermo, le conseguenti pronunce dei Tribunali, la OCC ‘Ndrangheta stragista, l’avocazione promossa dalla Procura Generale di Palermo relativamente al procedimento per gli omicidi Agostino, Castelluccio. Propongo altresì che vengano acquisiti tutti i documenti disponibili relativi alla effettuata autopsia.
Propongo infine che venga istituito un Comitato ad hoc, interno alla Commissione, che riceva il mandato di studiare il materiale così raccolto, anche ascoltando in audizione coloro che potranno essere ritenuti utili alla comprensione del medesimo.
Solidarietà al Sindaco Scionti e alla sua famiglia. Una solidarietà fatto di attenzione: investigatori e magistratura ci daranno presto un quadro più preciso del grave attentato. Una solidarietà fatta di consapevolezza: questo è il nostro quotidiano e autoctono terrorismo, che sia mafiosa la mano o mafiosa la cultura di quella mano. Questa è da sempre la principale minaccia alla tenuta democratica del nostro Paese: perché mortifica e intimidisce le persone oneste che vogliono fare politica, impresa, cultura. Bene abbiamo fatto a riformare il 338 del codice penale che oggi rappresenta uno strumento forte in più nelle mani degli inquirenti per fare giustizia.