Un breve saggio sulle Mafie al nord con la ricostruzione degli ultimi trent’anni della storia d’Italia. Una storia che si intreccia con Cosa Nostra, Stidda, ‘ndrangheta, Camorra, ma anche con la guerra fredda e Giulio Andreotti, fino alla nascita di Forza Italia. E poi il giudice Carlo Palermo che sposta il teatro della narrazione fino in Turchia e il procuratore Bruno Caccia, che lo riporta drammaticamente in Italia e per la cui morte chiediamo ancora verità e giustizia.
1. Come ci sono arrivate le Mafie al nord?
Se per “mafie” intendiamo le tradizionali organizzazioni mafiose che abbiamo imparato a conoscere cioè Cosa Nostra, Stidda, ‘ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, Società foggiana (…) possiamo dire che esiste un radicamento consolidato in anni di presenze capillari, più o meno avvertite e contrastate, in tutto il nord Italia. Una delle più recenti operazioni di cui ho notizia riguarda Trieste dove è stata colpita dall’azione di FFOO e magistratura una propaggine ben equipaggiata della mafia di Casal di Principe.
Come ci è “arrivata” la mafia al nord?
La domanda è in se’ già tutta un programma, perché implica due ante fatti: che sia stato il meridione d’Italia a generare le mafie e che il nord Italia ne sia stato immune fino a quando i mafiosi meridionali non l’hanno contaminato.
Ad osservare con una certa superficialità il fenomeno, si potrebbe anche aderire ad entrambi gli ante-fatti con il che ci imbatteremmo in una serie di questioni irrisolte: l’unità d’Italia è stata una buona idea? I “piemontesi” sono all’origine della indigestione di legalità imposta al sud? Mandare per anni al “confino” boss mafiosi meridionali nel nord Italia, pensando che lontani dal loro habitat non avrebbero nuociuto, è stata una pessima idea?
Il più celebre teorico di questa impostazione fu l’indimenticato prof. Miglio, ideologo di quella Lega Nord secessionista e apparentemente così lontana dalla Lega di Salvini, che seraficamente proponeva una riforma costituzionale che consentisse al meridione d’Italia di darsi un proprio ordinamento istituzionale autonomo più consono alla cultura personalistica del potere radicata in quelle latitudini. In altre parole: la costituzionalizzazione delle mafie come fattore di ordine (e progresso!) del sud Italia.
Sappiamo che a questa prospettiva si lavorò alacremente tra la fine degli anni ’80 e i primissimi anni ’90: quando cioè saltò completamente lo schema che aveva retto durante la Guerra Fredda e tutti si sentirono liberi di far volare gli stracci e di immaginare assetti nuovi di maggior confort. Il segnale di inizio “ricreazione” lo diede probabilmente Giulio Andreotti quando nell’Agosto 1990 andò in Parlamento a raccontare Gladio, facendo cascare a più di qualcuno tutti i denti.
Nacquero in quella fase diverse “Leghe” indipendentiste meridionali che ammiccavano alla Lega Nord e ne costituivano il naturale compendio, la più famosa delle quali fu “Sicilia Libera” direttamente organizzata da Cosa Nostra, in particolare da Bagarella, stretto congiunto del capo dei capi. Il tutto con l’altro patrocinio della P2 di Licio Gelli.
Esplosero le bombe, morirono guardie ed innocenti, poi qualcuno tirò il freno e tutto si sistemò con maggior ragionevolezza entro lo schema unitario, nazionale, democratico e parlamentare.
Forza, Italia: il pericolo è scampato!
Quindi, ribadisco, a leggere con una certa superficialità il fenomeno si potrebbe anche aderire ai due ante fatti (la mafia è nata al sud e ad un certo punto ha contaminato il nord). Ma appunto: a leggere il fenomeno con una certa superficialità, concentrandosi sulle frange più volgari (che sono comunque criminali e come tali vanno trattate), perché invece se si guardano le cose con più pazienza la scena cambia di forma e di significato.
La scena, a guardare con pazienza, è quella di un patto di scambio altolocato. Uno scambio di convenienze dove soldi provenienti dal traffico di droga (e prima dai sequestri di persona e dalla speculazione edilizia), violenza sempre a disposizione per mettere ordine, capacità imprenditoriale e finanziaria di pulire e far fruttare denaro e potere politico si mescolano in un intreccio soffocante.
C’è un anziano e discusso ex gran maestro del Grande Oriente d’Italia, Giuliano Di Bernardo, che diede le dimissioni dal ruolo pochi mesi prima dell’ondata di stragi mafiose del ’93 e che raccontò alla magistratura inquirente che non soltanto le logge calabresi della sua obbedienza erano quasi tutte controllate dalla ‘ndrangheta, ma che le Logge del nord erano state la camera di compensazione tra interessi economici settentrionali e capacità militare ed economica mafiosa. Ad ascoltarlo molto attentamente allora c’era il “mastino” di Palmi: Agostino Cordova. Non se ne fece nulla sul piano giudiziario perché da Palmi le carte passarono a Roma. Resterebbe da verificare anche un altro fatto: pare che i ritratti rituali del già gran maestro Di Bernardo siano stati bruciati all’interno dei templi massonici del GOI in segno di disprezzo eterno dell’infame.
Le mafie insomma, ad una lettura più attenta, furono (sono?) fattore integrato di un certo sviluppo economico e fattore riconosciuto nel mantenimento di un certo ordine costituito. Assumendo questo punto di vista tornano utili anche le più recenti esternazioni di “faccia d’angelo” Felice Maniero, boss della mala del Brenta o mafia del Brenta, che racconta dei suoi rapporti con funzionari dei Servizi.
La storia di Silvio Berlusconi indotto suo malgrado (!) a fare un patto con Cosa Nostra fin dagli anni ’70 per sviluppare indisturbato i suoi affari è paradigmatica. Per me resta un mistero giudiziario come sia stato possibile condannare in via definitiva il co-fondatore di Forza Italia Marcello Dell’Utri per concorso esterno in associazione mafiosa e considerare Berlusconi, che a quanto stabilito da recenti sentenze non definitive, avrebbe continuato a pagare il mensile a Cosa Nostra anche dopo la fondazione di Forza Italia e fino almeno al 1994, già diventato Presidente del Consiglio, una vittima della forza di intimidazione dell’associazione Cosa Nostra.
Un altro “saggio” di cosa siano state le mafie al nord, secondo questo approccio un po’ più profondo e paziente si rintraccia a Trento, 1980, dove c’è un giovane magistrato che lavora all’Ufficio Istruzione e mette (malauguratamente per lui) gli occhi su uno strano giro di eroina e morfina base proveniente dalla Turchia, diretta in Sicilia, ma transitante per alcuni alberghi di Trento. Il giovane giudice istruttore si chiama Carlo Palermo e scamperà per miracolo ad un formidabile attentato ordinato da Cosa Nostra il 2 Aprile del 1985 a Pizzo Lungo, Comune di Erice, vicino a Trapani: lì si era da poco trasferito per la impossibilità di continuare a lavorare a Trento, dove era stato spogliato dell’inchiesta. Quella mattina una mamma, Barbara Rizzo, con i suoi due bambini, Salvatore e Giuseppe, con la macchina fece da scudo a quella blindata del giudice Palermo: loro morirono e lui da allora non si da pace e cerca la verità. Quella più profonda.
2. XXI secolo: inabissarsi, arruolare e guadagnare
Mafia al nord dunque violenta, ricca e capace di stringere alleanze con ambienti politico-istituzionali: l’episodio più dirompente da questo punto di vista resta senz’altro l’assassinio del Procuratore di Torino, Bruno Caccia, avvenuto il 26 giugno del 1983, che va sempre messo in relazione al tentato omicidio del pretore di Aosta, Selis, che sei mesi prima qualcuno cercò di far saltare in aria imbottendo la sua auto di esplosivo: ebbene sì, la prima auto bomba contro un magistrato nella storia italiana è confezionata ad Aosta. Qualche mese dopo Rocco Chinnici non sarà altrettanto fortunato.
Il delitto Caccia è ancora oggi sotto i riflettori della magistratura (a Milano il processo di appello contro Rocco Schirripa ritenuto uno dei killer del procuratore, ha confermato la pena dell’ergastolo) e da solo dovrebbe bastare a stroncare una volta per tutte certi insopportabili stupori di chi ad ogni nuova inchiesta casca dal pero e si affretta a ringraziare le FFOO e la magistratura per aver illuminato un fenomeno… inaudito. Altro che inaudito! Il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, nato a Saluzzo e morto assassinato a Palermo il 3 settembre del 1982, già nell’80 parlava della presenza dei capi di Cosa Nostra nel torinese, intenti a fare i propri affari, senza destare sospetti, abili a camuffarsi e ad apparire “brave persone”. Dopo i bellicosi anni ’80 e ’90, la presenza delle organizzazioni mafiose si è come inabissata, cercando di far perdere coscienza di se’, anche in conseguenza del profondo mutamento del quadro internazionale di riferimento. Ma ci hanno pensato le grandi inchieste giudiziarie degli ultimi 18 anni a tenere acceso il faro: i processi Crimine ed Infinito sviluppatisi soprattutto tra Calabria e Lombardia che hanno sancito una volta per tutte l’unitarietà della ‘ndrangheta, le operazioni Minotauro, Albachiara, San Michele (…) fino a Barbarossa che hanno colpito severamente la ‘ndrangheta in Piemonte e il monumentale processo Aemilia che ha riguardato l’Emilia Romagna (150 imputati, un record!). Il tratto che colpisce in tutte queste inchieste più recenti è la capacità delle organizzazioni mafiose di allargare la rete di relazioni altolocate, soprattutto nel campo delle professioni, per ottenere una maggiore efficienza economica sul piano del riciclaggio del denaro, della penetrazione negli appalti, nella gestione di traffici ad alto tasso di conoscenza come il gioco d’azzardo on line. Colpisce anche il confine labile tra vittima e connivente: succede soprattutto col mondo aziendale, dove imprenditori avvicinati attraverso la più banale richiesta estorsiva, “mangiano la foglia” e decidono di diventare clienti dei mafiosi. I servizi che questi possono mettere in campo sono infatti ghiotti: dalla disponibilità di denaro liquido, al recupero crediti, alla dissuasione della concorrenza o di soci e dipendenti divenuti ingestibili.
Va detto che a volte questa scelta è motivata anche da un certo senso di sfiducia nelle Istituzioni, che vengono percepite ora come inadeguate ora come esse stesse corrotte.
Purtroppo sono tante le storie di imprenditori diventati Testimoni di Giustizia, cioè individui sottoposti a speciali misure di protezione, che pur avendo salva la vita non sono riusciti a mantenere le loro attività economiche successivamente alla denuncia e queste storie senza dubbio scoraggiano, nonostante vi sia stato da parte dello Stato un crescendo di attenzione a partire dal 1999, culminato nel 2017 con l’approvazione della legge che riforma i sistemi di tutela per gli imprenditori che denunciano.
Tutto ciò non può giustificare la connivenza con le organizzazioni mafiose, ma va tenuto in conto e deve essere uno sprone a far funzionare le Istituzioni preposte sempre meglio.
Più frequentemente la connivenza è frutto di un calcolo utilitaristico: sottostare alle richieste mafiose significa anche entrare in un circuito apparentemente foriero di vantaggi, si pensi, oltre agli esempi fatti sopra, agli appalti pubblici, lì dove l’imprenditore avvicinato conosca o supponga la capacità del clan di ottenere ascolto da parte degli amministratori locali e dell’apparato burocratico, che a volte conta di più. Insomma e qui sta uno dei punti cardinali della faccenda, il modo mafioso di stare al Mondo e in particolare nel mondo dell’economia, pare essere un modo vincente, particolarmente efficiente nell’ecosistema liberista. Grandi disponibilità di denaro, di provenienza illecita certo ma che hanno il merito di sollevare il capitano coraggioso dalle pastoie spesso invincibili del credito legale, velocità di realizzazione, riserva di violenza come metodo ordinario per semplificare il conflitto. Non c’è forse una assonanza culturale grave e profonda tra il modo mafioso di stare al Mondo e il modo che innerva certo mondo politico sempre più insofferente alla gestione democratica della complessità?
3. evoluzione della “forza di intimidazione”
Ecco a cosa dobbiamo allenarci: quando riflettiamo sulla “mafia al nord” non dobbiamo più pensare soltanto alla presenza delle tradizionali organizzazioni mafiose, che pure come ho cercato velocemente di richiamare è un fatto ineludibile, dobbiamo anche verificare in quali altri modi venga inverato il 416 bis del codice penale, cioè l’articolo che descrive l’associazione mafiosa. Il 416 bis è un articolo capolavoro, che andrebbe studiato nelle scuole, inserito nelle antologie, figlio della grande sapienza di Pio La Torre: un articolo che descrive la mera appartenenza ad una certa associazione come condotta meritevole di una severa reazione da parte dell’ordinamento costituito. Qual è la caratteristica che rende la mera appartenenza ad una certa associazione meritevole di sanzione gravissima da parte dello Stato? Quella di ottenere i propri scopi delittuosi “avvalendosi della forza di intimidazione del vincolo associativo, che genera omertà e assoggettamento”. La “forza di intimidazione del vincolo associativo” può tradursi nella paura che fa la presenza di un certo sodalizio, paura che è in grado di piegare la volontà altrui, senza colpo ferire, insomma di provocare obbedienza. Bisogna riflettere: la capacità di generare questo tipo di paura è propria esclusivamente dell’organizzazione Cosa Nostra, ‘ndrangheta (…)? Troppo facile rispondere: anche delle mafie straniere come le organizzazioni nigeriane o cinesi (che pure ci sono e sono state perseguite già attraverso il 416 bis).
Una risposta intelligente ed avanzata arriva da Roma e la dobbiamo al lavoro della Procura guidata da Pignatone: l’operazione è quella denominata “mafia capitale”, del dicembre del 2014, che ha portato alla condanna di Buzzi e Carminati, per ora soltanto in secondo grado di giudizio. Nel sodalizio “Buzzi-Carminati” non si registra la presenza di articolazioni delle mafie tradizionalmente intese, ne’ di un sodalizio criminale della capacità di controllare militarmente un certo territorio, piuttosto ci si confronta con una rete di relazioni animata soprattutto da una connivenza corrotta e corruttiva, certo adagiata su una riserva di violenza il più delle volte evocata e non agita. Non c’è il controllo di un quartiere, ma di un ecosistema sociale.
Bisognerebbe andare oltre e ragionare anche su cosa sia “violenza” e quindi su come si debba qualificare quella “riserva di violenza” che rende il metodo intimidatorio, mafioso a norma di codice penale.
Per esempio: in una società così affamata di lavoro, la possibilità di stroncare carriere in ambiente universitario o ospedaliero potrebbe essere intesa come “riserva di violenza” capace di generare omertà e assoggettamento?
Quando nella XVII Legislatura abbiamo modificato l’art. 603 bis del Codice Penale nell’ambito della più ampia riforma per contrastare il fenomeno del caporalato, abbiamo introdotto un principio secondo il quale il ricatto del lavoro verso una persona vulnerabile, cioè in grave condizione di bisogno, è in se stesso una forma di violenza estorsiva, senza che si debba provare, per integrare la fattispecie di reato, un ulteriore ricorso alla violenza agita. Qualora si riscontrasse pure questa, essa sarebbe una aggravante rispetto alla condotta di reato già perfettamente integrata. Quindi mettere paura ad una persona in difficoltà, ottenendo da questa prestazioni lavorative (e non soltanto) attraverso la minaccia di non farla più lavorare è in se stessa da considerarsi azione violenta.
Su questo crinale si risolve la profezia di Giovanni Falcone in un modo o in un altro.
Alla domanda se lo Stato avrebbe mai sconfitto Cosa Nostra, Falcone rispose come tutti noi sappiamo: “Certo, perché la mafia è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha avuto una origine, avrà una fine”. Una risposta perfetta, se riferita al dato storicizzato di una certa organizzazione, quella di Cosa Nostra siciliana, che infatti se non è stata radicalmente sconfitta, è stata sicuramente decapitata e fortemente ridimensionata dalla reazione dello Stato, ahinoi, alle stragi in cui persero la vita proprio Giovani Falcone, Francesca Morvillo, Paolo Borsellino e quasi tutti i loro agenti di scorta. Una risposta che rischia invece di essere neutralizzata se queste “piante” maledette prima di essere estirpate riusciranno a trasferire il proprio codice culturale a quanti, persone per bene che mai e poi mai si immischierebbero con giri di droga, estorsioni o gioco d’azzardo, abbiano però maturato una tale insofferenza per le regole del diritto e abbiano una così irrefrenabile ambizione di potere da essere pronte a annichilire di fatto la democrazia liberale e costituzionale che conosciamo, in nome di forme di gestione dell’ordine sociale che lascino libera la volontà del più forte di inverarsi in tutto il suo splendore. Di nuovo.
Davide Mattiello
Presidente di Benvenuti in Italia
Consulente della Commissione Parlamentare Antimafia della XVIII legislatura