Appello agli agenti della Gladio: la verità è già giustizia, parlate.

Il mio appello, presentato venerdì 12 luglio a Fidenza, nel corso della presentazione del libro “La Bestia” con l’autore Carlo Palermo e Margherita Asta.

Voglio partire da queste parole che un magistrato italiano ha pronunciato qualche giorno fa a conclusione di un processo di cui vi dirò:

(la sentenza di primo grado) non ha fatto giustizia, ne’ per e vittime, ne’ soprattutto ha fatto giustizia per l’ansia di libertà che invade quei popoli che pensavano di affacciarsi alla democrazia e sono stati, in ragione di questo progetto, annichiliti, cioè dire distrutti. In quegli anni la più grande repressione dei marxisti avvenne nell’America Latina e avvenne non per il dicktat di un gruppo limitato di persone, che comunque viene perseguito ancora oggi in Italia come in altri Paesi del Mondo, VENNE PERSEGUITO IN RAGIONE DI UN PROGETTO COMPLESSIVO che ha visto una intera area del pianeta coinvolta, il Cono del Sud. Quelle libertà e quella democrazia, che non era soltanto dei socialisti e dei Marxisti, ma era anche dei Sindacalisti, dei giovani, degli studenti, delle donne, che per LA PRIMA VOLTA in quelle aree rivendicavano diritti. Poi la libertà venne annientata e venne annientata IN RAGIONE DI UN PROGETTO CHE ERA NOTO COME TALE

Queste parole sono state pronunciate dal procuratore generale di Corte d’Appello, dott Mollace, nella requisitoria finale del processo celebratosi a Roma in Corte d’Assise d’Appello e che ha avuto ad oggetto un gruppo di alti dirigenti di diversi Paesi sud Americani, Brasile, Perù, Bolivia, Cile, Equador, Uruguay, considerati a vario titolo responsabili della attuazione del PLAN CONDOR.

Il processo si è concluso con una raffica di condanne all’ergastolo, non ancora definitive.

Gli storici non hanno dubbi ormai sul fatto che, tra gli anni ’70 e ’80 in Sud America, l’ordine caro ai liberali americani e per estensione occidentali sia stato mantenuto anche attraverso un sistematico ricorso alla violenza politica, il Plan Condor appunto, che in alcuni casi si è spinto ad appoggiare vere e proprie dittature militari.

Per nulla scontato che, avendo quell’ordine trionfato a livello planetario dopo il 1989, qualche tribunale si permetta di giudicare e condannare penalmente i responsabili di quella strategia. Normalmente sono i vinti che vengono messi sul banco degli imputati.

Questa vicenda credo ci aiuti a riflettere sulla storia di casa nostra.

Quanto deve essere stata “attenzionata” l’Italia in quegli stessi decenni? L’Italia non soltanto geograficamente cerniera tra i due blocchi e la sponda sud del Mediterraneo, ma sede del più potente Partito Comunista dell’Europa occidentale? La risposta è facile: assai.

È ragionevole pensare che l’ansia per le sorti del nostro Paese fosse tale da suggerire anche per il nostro Paese una “TERAPIA SUDAMERICANA”?

Sono certo di sì.

Basta tornare con la mente al 1964, primo Governo Moro, un Moro già allora impegnato a sdoganare una parte almeno dello schieramento politico a sinistra della DC, già allora tintinnarono le sciabole: quelle del generale De Lorenzo, che era niente meno che Comandante generale dell’Arma dei Carabinieri e che immaginava di occupare il potere adoperando, appunto, SOLO i Carabinieri.

Passando per Piazza Fontana nel 1969, si arriva al minacciato colpo di Stato della Immacolata del 1970, capitanato da un improbabile Borghese, alias Principe Nero, che venne efficacemente riportato a più miti consigli (e probabilmente non ci fu nemmeno da insistere troppo).

Cosa risparmiò all’Italia la “TERAPIA SUDAMERICANA”?

Mi sono convinto che fu soprattutto, anche se non soltanto, il sistema culturale e politico che ha avuto nella DC il proprio baricentro a produrre il risultato, garantendo l’Alleanza Atlantica e assicurando che all’occorrenza si sarebbe anche potuto adoperare, in maniera mirata, direi chirurgica, la violenza.

Davvero non è un caso che dalla nascita della Repubblica fino al 1994, ininterrottamente il Ministero dell’Interno sia stato esclusivo appannaggio di uomini della DC, accuditi e consigliati da agenti USA. Carlo Palermo a questo proposito nel suo libro parla diffusamente del così detto “Agente pagatore”.

Durante quei decenni e fino al 1990 il sistema ha tenuto, capillarmente, coinvolgendo uomini e donne nelle Istituzioni e fuori, consapevoli e convinti di fare la cosa giusta.

Questo sistema in Italia abbiamo imparato a chiamarlo con una formula più rassicurante di “Plan Condor” che già nel nome evocando un rapace mette paura e cioè Stay Behind.

Questo sistema, prevedendo anche l’utilizzo chirurgico della violenza, ha sviluppato rapporti ed alleanze con vari ambienti criminali, mafiosi, terroristici e “comuni” ritenuti evidentemente assai preziosi per la disinvoltura con la quale normalmente i criminali sono disposti ad applicarla, la violenza, nelle dosi richieste.

Non posso entrare ora nei dettagli ma per questo sono convinto che in particolare ciò che è accaduto tra il 1978, col sequestro e l’esecuzione di Aldo Moro ed il 24 Gennaio del 1994, fallito (o sospeso) attentato all’Olimpico, vada letto in questa prospettiva.

Caddero le persone ritenute pericolose per la tenuta del sistema: come Aldo Moro.

Caddero le persone che per rigore professionale non si vollero piegare alle esigenze del sistema. Pochi giorni fa abbiamo ricordato l’assassinio dell’Avvocato Giorgio Ambrosoli, 11 Luglio 1979 e a tanti è tornato in mente il giudizio, spietato, espresso da Giulio Andreotti: “Ambrosoli era uno che se l’andava a cercare”.

Tutt’altro che una frase volgare ed irriconoscente, piuttosto una frase drammaticamente pertinente.

Come l’avvocato Ambrosoli, cioè persone cadute perché per rigore professionale non vollero piegarsi alle esigenze del sistema e quindi toccarono fili che non dovevano essere toccati, c’è stato anche il dott. Carlo Palermo, che mise il naso in uno dei gangli linfatici con i quali si reggeva il sistema stesso: il traffico internazionale di morfina base e il conseguente riciclaggio di denaro sporco.

Una parola sulla funzione della morfina base: oggi noi siamo più o meno consapevoli di cosa siano i bit coin e più generalmente cosa siano le così dette cripto valute: monete non ufficiali, ma funzionanti e circolanti, con le quali si saldano anche i contratti indicibili.

Ebbene, io sono convinto che tra gli anni ’70 ed ’80 l’equivalente del bit coin fosse la morfina base: una moneta corrente universalmente riconosciuta che poteva trasformarsi in denaro normale, in armi, in rifiuti tossici, in compiacenze.

Fatemi ricordare almeno un altro magistrato assassinato io credo per gli stessi motivi per i quali doveva morire il giudice Carlo Palermo: Bruno Caccia, Procuratore della Repubblica di Torino ucciso il 26 Giugno 1983, che guarda caso stava indagando sul riciclaggio di denaro sporco attraverso i casinò della valle d’Aosta, dove soltanto qualche mese prima qualcuno aveva cercato di far saltare in aria il Pretore di Aosta, Selis.

All’interno di questo sistema complesso stava una organizzazione particolare: GLADIO.

Oggi possiamo affermare, di nuovo senza entrare troppo nei particolari, che GLADIO sia stata una organizzazione clandestina, paramilitare, voluta e gestita dai nostri Servizi in collaborazione con i Servizi americani. I Gladiatori erano uomini… ma anche donne… militarmente addestrati, che sapevano come sparare, come sabotare, come far esplodere. Persone che avevano a disposizione denaro, nascondigli, documenti, armi. Persone abituate a trattare anche con i criminali, fossero criminali di guerra (come in Somalia) o criminali mafiosi.

Io mi sono convinto che all’interno di questa organizzazione particolare ci fossero almeno tre tipi di persone diverse: c’erano dei patrioti convinti che la Repubblica Italiana, fragile e minacciata, andasse difesa anche così, considerato il contesto mondiale.

C’erano dei fascisti in agguato che speravano in questo modo di togliersi qualche soddisfazione e che cullavano il sogno di tornare a prendere il potere, lasciandosi alle spalle questa idea eccessiva di libertà chiamata democrazia parlamentare.

C’erano infine dei delinquenti veri e propri, persone cioè a cui la disponibilità di armi e denaro, la sostanziale impunità e l’accesso a relazioni potenti, aveva dato alla testa.

Sono convinto che il mazzo di carte all’interno di questa organizzazione, si mescolò pericolosamente dopo un fatto specifico capitato nell’estate del 1990: Giulio Andreotti, intervenendo alla Commissione Stragi ammette per la prima volta l’esistenza di Gladio. Apriti cielo!

Da lì a poco oltre 600 gladiatori vennero dallo stesso Andreotti pubblicamente rivelati.

Era il segnale della fine di un’epoca.
I tre colpi di fischietto e poi tutti negli spogliatoi.
Era l’inizio della riorganizzazione.

Sono convinto che quello che accadde tra il 1992 e il 1994, in quella terribile e confusa convergenza di interessi, sia spiegabile anche applicando la categoria della “trattativa” si ma “sindacale”: non me ne vogliano se abuso di questo concetto ma è solo per spiegarmi. Molti soggetti protagonisti del sistema, che fossero di Gladio, che fossero mafiosi, negoziarono, a loro modo, il TFR e qualcuno pretese di non essere messo in panchina, ma di continuare in altro modo a mantenere le stesse mansioni di prima. Qualcuno poi forse semplicemente volle vendicarsi di chi ad un tratto aveva così spudoratamente girato le spalle. E qualcuno, ne sono certo, ci rimase molto male, si sentì tradito e qualcuno venne eliminato perché non raccontasse la verità.

Io sono certo che venerdì 12 luglio a Fidenza, all’incontro per presentare il libro di Carlo Palermo “La Bestia”,  abbiano partecipato ex gladiatori o ex gladiatrici, che ancora soffrono per come sono andate le cose tra il 1990 e il 1994. Sono certo che ci siano ex gladiatori che si sentono ancora oggi salire l’amaro in bocca per come sia stata pervertita quella missione patriottica, che hanno sentito di servire con onore e disciplina, anzi, per citare il motto di Gladio: Silendo Libertatem Servo.

Sono certo che alcuni ex gladiatori pretendano la verità come forma di giustizia non meno delle famiglie di quanti caddero durante questa guerra tutt’altro che “fredda” piuttosto a “bassa intensità”.

Sì: la verità è una forma di giustizia.

Con noi, in questa serata, Margherita Asta, figlia di Barbara Rizzo e sorella di Giuseppe e Salvatore Asta, che ci ha aiutato a comprendere col suo esempio l’importanza di questa forma di giustizia.

Il 5 Agosto a Palermo, più precisamente a Villa Grazia di Carini, celebreremo i 30 anni dal duplice omicidio di Nino Agostino, agente di polizia e di sua moglie Ida Castelluccio. Lo faremo per la prima volta, senza Augusta, la mamma di Nino che per 30 anni insieme alla sua famiglia si è battuta per la verità. Avremo quindi un’altra tomba da visitare. Io ci sono stato un mese fa, insieme a Vincenzo suo marito e a Flora sua figlia e ho letto queste parole sulla sua lapide:

QUI GIACE SCHIERA AUGUSTA, MAMMA DELL’AGENTE ANTONINO AGOSTINO, DONNA IN ATTESA DI GIUSTIZIA ANCHE DOPO LA MORTE

Con le sue parole mi rivolgo a quanti sanno e non sono più disposti a tacere: la verità è già giustizia, parlate.

Grazie

Verità giudiziaria, verità storica

La partita per giungere alla piena verità giudiziaria e storica in merito agli omicidi e alle stragi che si sono consumate in Italia nella storia repubblicana è ancora aperta. Una lunga scia di sangue che parte da Portella della Ginestra, passando da piazza Fontana e dalla stazione di Bologna, per arrivare a Palermo, negli anni ’90, con le stragi di Capaci, via d’Amelio e il tritolo di Firenze, Roma e Milano.

Esiste una ragion di Stato superiore alla ragione della verità di fronte a un omicidio o ad una strage? Per alcuni, probabilmente, sì: il mantenimento dell’ordine. Anche in quella sua versione deteriore e ipocrita, laddove si consideri, come ordine da difendere, la rendita di posizione di qualche combriccola altolocata, oppure la posizione pretesa da qualche nuova combriccola rampante.

Il 5 luglio 2016 il Parlamento ha approvando il reato di depistaggio per i Pubblici Ufficiali che occultano la verità all’autorità giudiziaria – totalmente o parzialmente – non solo per i fatti di terrorismo e strage, ma anche per vicende legate all’associazione mafiosa, traffico di droga, traffico illegale di armi e di materiale nucleare, chimico o biologico. Pena la sanzione della reclusione da sei a dieci anni. Proposta di legge che ha visto come primo firmatario Paolo Bolognesi, deputato PD e all’epoca presidente dell’Associazione vittime della strage di Bologna.

È un provvedimento importante perché i depistaggi sono stati lo strumento utilizzato dai responsabili materiali e morali delle vicende stragiste e di terrorismo del nostro Paese per rallentare, se non bloccare, le inchieste e per impedire l’accertamento di fatti delittuosi gravissimi sulle stragi che da piazza Fontana al 1993 hanno insanguinato l’Italia. Un capitolo ancora non completamente scritto, fatto di omissioni, bugie, distruzioni di documenti, ormai accertati giudiziariamente, compiuti da pubblici ufficiali inseriti negli apparati dello Stato.

Anche per questo Davide Mattiello ha chiesto a più riprese di interrogare Marcello Dell’Utri in Commissione Antimafia: la pista degli “imprenditori del nord” porta lì. La DDA di Caltanissetta ha recentemente ribadito la centralità del rapporto mafia-appalti del ‘91 per comprendere l’epicentro di interessi che determinarono la strage di Via d’Amelio e non soltanto. Ma quel rapporto incrocia inevitabilmente la vicenda di Dell’Utri e di Mangano, lo ‘stalliere di Arcore’, che in realtà era un personaggio mafioso di primo piano legato alla famiglia di Porta Nuova e al boss Pippo Calò. Il compito della magistratura penale è senz’altro distinto da quello della Commissione Antimafia che però avrebbe un materiale su cui lavorare in maniera legittima, pertinente e interessante: le carte del processo che ha definitivamente condannato per concorso esterno in associazione mafiosa Dell’Utri.

Sarebbe utile lavorare su quelle carte per ricostruire in maniera autonoma, in atti parlamentari, l’intreccio di potere che legò certa imprenditoria del nord a Cosa Nostra. Potremmo forse finalmente consegnare al Paese un giudizio storico, chiaro e preciso sulle responsabilità di quel periodo, che costò tante vite e che avvelenò la democrazia Italiana in una maniera tanto profonda da non essere ancora passata.

Il 20 maggio del 2015 è stato presentato nella sala stampa della Camera il libro di Davide Mattiello “L’onere della prova” (Melampo Ed.), definito dal giudice Nino di Matteo “interessante perché partendo dagli atti della Commissione Antimafia del periodo delle stragi indica il percorso da seguire (…) non soltanto alla magistratura, ma anche alla politica, che non può dimenticare quelle pagine ancora oscure e ancora da approfondire”.

Presenti al tavolo dei relatori c’erano anche Vincenzo e Augusta Agostino, genitori di Antonino Agostino, agente di Polizia alla questura di Palermo, che il 5 agosto 1989 a Villagrazia di Carini con la moglie Ida Castelluccio, incinta di cinque mesi, furono uccisi mentre entravano nella villa di famiglia, da una coppia di sicari in motocicletta. I mandanti e gli esecutori dell’omicidio di Agostino e della Castelluccio sono ignoti, ma il poliziotto stava svolgendo indagini e compiti delicati, che sono tutt’ora al vaglio della Autorità Giudiziaria (la Procura Generale di Palermo).

Sappiamo che la verità esiste e che il Parlamento ha la possibilità di fare la differenza, assumendosi la responsabilità di un giudizio storico politico su quegli anni. Crediamo che questo sforzo sia necessario, perché l’Italia diventa migliore se fa i conti con quella tragica esperienza, i cui effetti non sono ancora esauriti.

Sono tre gli indagati per l’omicidio Agostino: Nino Madonia, Gaetano Scotto e Giovanni Aiello, soprannominato “Faccia di mostro”, l’ex poliziotto indicato come un sicario a cavallo tra mafia e servizi, morto improvvisamente il 21 Agosto del 2017 sul lido di Montauro in Calabria (Mattiello ha chiesto e ottenuto che la Commissione Antimafia acquisisse l’autopsia). Secondo le dichiarazioni rese al pm Nino di Matteo dal collaboratore Vito Lo Forte, Madonia e Scotto avrebbero agito con Aiello che subito dopo l’omicidio li aiutò a distruggere la moto usata e li fece scappare su un’auto pulita per non destare sospetti. Il 26 febbraio del 2016 Vincenzo Agostino, durante un confronto all’americana tenutosi nel carcere dell’Ucciardone, ha riconosciuto in Giovanni Aiello “faccia di mostro”. Vincenzo ha sempre sostenuto che Aiello era venuto a casa sua a cercare il figlio Nino qualche giorno prima del 5 agosto, giorno dell’omicidio di Nino. Si era presentato insieme ad un’altra persona sostenendo di essere colleghi del giovane poliziotto: uno aveva la faccia deturpata, soprattutto sul lato destro, una “faccia di mostro”. La descrizione di Aiello corrisponde a quella fatta da numerosi collaboratori che nel corso degli anni lo hanno sempre indicato come un sicario a disposizione della mafia.

Il 21 agosto 2017 arriva la notizia dell’improvvisa morte di Aiello, secondo la ricostruzione ufficiale colto da un malore mentre si trovava sulla spiaggia di Montauro, in Calabria. Davide Mattiello si è subito opposto alla notizia che voleva la cremazione del corpo all’indomani del funerale: in una nota rilasciata all’ANSA Mattiello si diceva “sconcertato dalla notizia data e non smentita della autorizzazione alla cremazione del corpo di Giovanni Aiello, oggi stesso a seguito del funerale previsto per le 17:30”. Cremare il corpo avrebbe significato impedire qualunque eventuale altro approfondimento. “C’è da trovare un equilibrio tra il rispetto sempre e comunque dovuto ad un uomo che muore e alla sua famiglia e il bisogno di verità dei famigliari delle vittime in qualche modo legate alla storia di Aiello, che poi è il bisogno medesimo che ha lo Stato. Intanto, prudenza vorrebbe, quanto meno sospendere la cremazione”.

La morte di Aiello porta con sé naturalmente la fine della sua processabilità sul piano penale, ma non fa venire meno la responsabilità di raccogliere, archiviare, studiare ciò che lo ha riguardato in questi anni. Per questo Mattiello ha richiesto alla Commissione parlamentare antimafia di acquisire tutto il materiale a disposizione su ‘faccia di mostro’, richiesta che è stata accolta il 14 settembre 2017.

Giudizio storico e giudizio penale hanno esigenze differenti ed è bene che con la massima cura e trasparenza siano offerti allo studio, al confronto e alla valutazione gli atti disponibili perché non si perda memoria quanto meno di chi, come e quando abbia indagato e se dovessero emergere contraddizioni la Commissione avrebbe l’autorità per approfondire e chiedere spiegazioni. Come dice Paolo Bolognesi “i misteri non esistono, esistono soltanto i segreti”, che talvolta resistono anche grazie alla ignavia di chi dovrebbe cercare la verità.

La mafia non è più quella di una volta (ma resta quella di sempre)

Ho organizzato
per il 22 Febbraio 2017 un seminario alla Camera dei Deputati (Sala Aldo
Moro, dalle 10 alle 13) e mi farebbe piacere che tu partecipassi.

A venticinque
anni dalle stragi di Palermo abbiamo il dovere di chiederci come sia cambiato
il fenomeno mafioso e quanto siano efficaci gli strumenti che abbiamo a
disposizione, consapevoli che in questi 30 anni sono stati conseguiti risultati
eccezionali, che hanno consentito al nostro Paese di debellare quasi
completamente la Cosa Nostra dei corleonesi e di assestare colpi duri alle
altre organizzazioni mafiose.

Abbiamo bisogno
in particolare di riconoscere e colpire “la forza intimidatrice del vincolo
associativo” anche in quelle consorterie segrete che fondano il proprio potere
sul ricatto e lo adoperano sistematicamente per interferire nel funzionamento
delle Istituzioni pubbliche. Anche quando queste consorterie non rappresentano
evoluzioni delle associazioni mafiose tradizionali, ma organizzazioni
“originarie ed originali” per evocare le parole che usò il Procuratore
Pignatone nel dicembre del 2014 per spiegarci “Mafia Capitale”. Parole che
verrebbe da utilizzare nuovamente pensando ad inchieste come “P4” “Labirinto” o
come quella che vede oggi indagati i fratelli Occhionero.

Ma abbiamo anche
il bisogno di rafforzare nella percezione
dei cittadini l’imparzialità di chi ricopre ruoli apicali nelle Pubbliche
Istituzioni, imparzialità che si traduce nella esclusiva lealtà alla Repubblica
e quindi alla Costituzione. Una esclusiva lealtà che sicuramente viene meno
qualora il soggetto risponda ad organizzazioni mafiose o comunque segrete e
dedite alla interferenza, ma che può
venire meno o venire meno anche soltanto nella percezione dei cittadini,
qualora il soggetto risponda ad organizzazioni
perfettamente legali e tuttavia fondate su un vincolo di obbedienza gerarchico
perticolarmente qualificato
.

Lavorare su
questo secondo bisogno non è meno importante che lavorare sul precedente,
perché il successo delle mafie e delle associazioni segrete sta anche nella
inaffidabilità, reale o percepita, delle Istituzioni Pubbliche. Detto al
contrario: tanto meglio vengono percepite le Istituzioni Pubbliche, tanto
meglio lavorano nel pieno rispetto delle regole democratiche, tanto meno si
avvertirà la tentazione di appoggiarsi ad altre “solidarietà” per ottenere il
soddisfacimento dei propri bisogni. Che poi è il concetto che il generale Carlo
Alberto Dalla Chiesa espresse, dicendo: “Lo Stato dia come diritti, ciò che i
mafiosi danno come favori”.

Parole come “onorabilità”
e “prestigio” non sono piene di vana retorica, sono invece utili e concreti
richiami a quel modo di essere e di apparire di chi interpretata ruoli
istituzionali, così determinante nell’infondere fiducia nei cittadini. Soltanto
un folle non apprezzerebbe il ruolo della “fiducia” nella tenuta di una sociatà
fondata sul principio di legalità democratica.

Ciò posto le
questioni attorno a cui rifletteremo sono due:

– evoluzione del
fenomeno mafioso ed adeguatezza dell’attuale quadro normativo: tra 416 bis e
Legge Anselmi

– compatibilità
tra l’esercizio di funzioni pubbliche apicali e l’appartenenza a sodalizi
fondati su un “qualificato" vincolo di obbedienza

L’obiettivo è
quello di valutare la possibilità di proporre una “ristrutturazione” della Legge
Anselmi che la renda più utile a colpire le così dette “masso-mafie” (cit. Fantò-Scarpinato),
ma anche a tenere alla larga dalla PA chi possa considerarsi, in ragione di
“obbedienze” seppur legali, non sufficientemente libero e imparziale.

Ne discuteremo
con il prof. Isaia Sales, il
procuratore Giuseppe Lombardo, la
giornalista Alessia Candito, l’avv. Fabio Repici e il Vice presidente della
Commissione Parlamentare Antimafia on. Claudio
Fava
.

Sono stati
invitati:

la Presidente
della Camera Boldrini, il Ministro della Giustizia Orlando, il Ministro
dell’Interno Minniti, la Presidente della Commissione Antimafia Bindi, la
Presidente della Commissione Giustizia Ferranti.

Commissione antimafia: meno De luca e più focus sulle stragi..

(ANSA) – ROMA, 24 NOV – “Più stragi e meno De Luca in Antimafia”. A chiederlo è il deputato Pd Davide Mattiello, componente della Commissione Antimafia. “Mentre vengono archiviate indagini importanti come quella sul delitto Agostino – scrive – fioccano assoluzioni per insufficienza di prove in processi che esplorano il rapporto tra Stato e mafia, il che spesso si traduce in delegittimazione di intere batterie di collaboratori. Mentre latitanze altolocate continuano indisturbate nonostante le ripetute denunce – l’ultima ancora ieri della dott.ssa Teresa Maria Principato su quella di Messina Denaro, per non parlare del tristemente noto ex parlamentare di FI Amedeo Matacena latitante a Dubai -, mentre le DDA più esposte fanno fuoco con la legna che hanno per inchiodare la masso-mafia, utilizzando anche la legge Anselmi, in Antimafia c’è chi vorrebbe aprire una indagine parlamentare sulle parole di De Luca, che fanno pena sul piano della cultura politica ma che c’entrano con il dovere di inchiesta di una Commissione come la nostra? Bene ha fatto la presidente Bindi a mettere dei paletti. Ora, però, facciamo il resto”

Antimafia acquisisca atti periodo stragi

(ANSA) – ROMA, 9 AGO – “Rinnovo la proposta che ho avanzato alla Presidente Bindi della Commissione parlamentare antimafia alla vigilia dell’anniversario dell’assassinio di Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio, di acquisire gli atti di impulso fatti dalla Direzione nazionale antimafia tra il 2008 e il 2013”. Lo chiede il deputato Pd Davide Mattiello, componente delle Commissioni Antimafia e Giustizia, dopo un articolo pubblicato oggi dal quotidiano Il Fatto quotidiano nel quale, secondo le dichiarazioni del pentito Nino Lo Giudice, sarebbe stato il poliziotto Giovanni Aiello a far saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta.
“Ci sono magistrati e investigatori che con grande rigore e caparbietà stanno cercando di fare luce, consapevoli dei prezzi che pagano e pagheranno per questo, a loro la nostra stima e il nostro sostegno”, prosegue il deputato. “Walter Molino – commenta Mattiello – si conferma giornalista ben documentato e preciso, il suo pezzo aiuta a capire cosa stia succedendo. Su quanto Lo Giudice ha detto ai magistrati di Catanzaro e Reggio Calabria, che in gran parte coincide con quanto detto, per esempio, da Villani, Di Giacomo e Lo Forte, resta il problema dei riscontri ma ci sono anche altre domande che pesano. Ormai pare assodato che Lo Giudice nel 2013 venne indotto a infamare Donadio, oltre a Pignatone e Prestipino: chi ha avuto interesse a farlo? A partire dal processo aperto a Catanzaro nel quale Lo Giudice risponde di calunnia, è iniziata una indagine sui mandanti del depistaggio? Questo fatto, c’entra con la fuga di notizie sul lavoro di Donadio dell’estate del 2013, che contribuì alla decisione di Roberti, neo procuratore nazionale, di sollevare Donadio dall’incarico di coordinamento sulle indagini relative alle stragi? La stessa attività di impulso realizzata tra il 2008 e il 2013 da Donadio su mandato di Grasso, allora Procuratore nazionale antimafia, è stata oggetto di un ricorso al PG di Cassazione, firmato da Lari e Salvi, che ad oggi risulta ancora pendente: non sarebbe opportuno definire anche questa vicenda tempestivamente?”

Mafia: Antimafia si occupi del periodo stragi. Memoria Chinnici ci impone di fare di più

(ANSA) – ROMA, 29 LUG – “La memoria di Rocco Chinnici impone a tutti di fare di più, per questo proporrò alla Presidente della Commissione parlamentare antimafia di acquisire gli atti di impulso che la Dna predispose tra il 2009 e il 2013 sulle stragi di mafia e su alcuni omicidi come quello di Nino Agostino e di sua moglie Ida”. Così il deputato del Pd Davide Mattiello, componente delle commissioni giustizia e antimafia. “A quegli atti di impulso ha ancora recentemente fatto riferimento il pg di Caltanissetta, dott. Lari, liquidandoli come infondati. Quegli atti di impulso sono per altro oggetto di un procedimento disciplinare davanti al CSM, a carico del dott. Donadio, iniziato ormai 3 anni fa e del quale non è dato sapere nulla. Credo che sarebbe legittimo per la Commissione Antimafia vederci chiaro tanto sugli atti di impulso, quanto sul procedimento disciplinare. Infatti, come ha recentemente più volte ribadito la Presidente Bindi, la Commissione Antimafia non può attendere la conclusione di tutti i processi relativi alle stragi di mafia per occuparsi di quel periodo così tragico. Anche perché il lavoro giudiziario portato avanti con determinazione ed efficacia continua a produrre sia risultati importanti, come la recente sentenza di condanna di primo grado del Capaci bis, che vanno analizzati, sia la promessa di ulteriori sviluppi, per esempio un Capaci ter incentrato sulle "cointeressenze” tre soggetti esterni a Cosa Nostra e Cosa Nostra, che vanno compresi", prosegue il deputato dem. “E’ tanto più pertinente richiamare oggi questo bisogno perché, come chiarito dalla sentenza della Corte di Appello di Caltanissetta nel 2002, la strage del 29 Luglio 1983, con tanto di autobomba e telecomando, maturò in quel segmento di mafia che oggi definiremmo di "masso-mafia” come propone Scarpinato, quel segmento di mafia che è da sempre politica-istituzioni-economia, tanto che come mandanti della strage furono indicati gli “esattori” Nino e Ignazio Salvo. La memoria del giudice Chinnici impone a tutti di tenere lo sguardo ficcato nelle articolazioni altolocate della mafia, dove si tracciano convergenze e indicibili accordi. In Procura a Caltanissetta, nella metà degli anni ‘90, ad occuparsi dell’omicidio Chinnici, c’era anche il dott. Nino Di Matteo, uno che questa mafia altolocata non l’ha più persa di vista", conclude Mattiello.