Il mio intervento come Relatore della Riforma del Codice Antimafia

 

Grazie Presidente,

Quattro anni sono passati da quando questo lavoro è cominciato con l’incardinamento della proposta di legge di iniziativa popolare 1138 in Commissione Giustizia alla Camera. Poi vennero l’inchiesta della Commissione Antimafia, che produsse una articolata proposta di riforma, e il contributo del Governo a partire dal ddl Orlando dell’agosto del 2014

Era l’11 Novembre del 2015, quando a larga maggioranza la Camera approvava in prima lettura il testo che oggi arriva nuovamente alla attenzione dell’Aula, dopo che il Senato lo ha licenziato con modifiche il 6 di Luglio.

Vediamo allora subito le modifiche più significative apportate al testo, che sono tre:

– l’Agenzia nazionale per i beni sequestrati e confiscati resta sotto la vigilanza del Min. Interno come è attualmente, mentre noi l’avevamo collocata sotto la vigilanza della Presidenza del Consiglio.
– nell’art. 1 il riferimento agli indiziati di reati contro la PA resta, ma collegato al 416 (associazione semplice)
– agli articoli 25-28 è stata estesa la portata della certificazione prefettizia anti mafia con particolare riguardo alla concessione dei terreni agricoli, prevedendo che “L’informazione antimafia sia sempre richiesta nelle ipotesi di concessione di terreni agricoli demaniali che ricadono nell’ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, a prescindere dal loro valore complessivo, nonché su tutti i terreni agricoli, a qualunque titolo acquisiti, che usufruiscono di fondi europei”. Ho voluto leggere per esteso questa norma in particolare perchè è la traduzione in Legge della ottima pratica adottata dal Presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, a causa della quale lo stesso ha subito il gravissimo attentato che ricordiamo.

Le modifiche sono state approfondite e discusse, per tanto le ritengo oltre che ragionevoli, apprezzabili. Come ha ribadito il Ministro Orlando intervenendo personalmente nella discussione svoltasi in Commissione Giustizia la scorsa settimana, il giudizio sulla riforma va elaborato tenendo uno sguardo di insieme su tutti e 38 gli articoli, che complessivamente si fanno carico tanto della esigenza di maggior efficacia nella individuazione e aggressione dei patrimoni illeciti, quanto di quella di maggior tutela per i soggetti coinvolti a vario titolo nella procedura: il proposto, i lavoratori, i terzi in buona fede

E’ chiaro a tutte le forze politiche che dopo 4 anni di lavoro oggi il punto è decidere se licenziare il testo così come ci è arrivato dal Senato, facendolo diventare legge, oppure sprecare questa occasione. In questa prospettiva abbiamo valutato gli emendamenti proposti in Commissione e valutiamo quelli presentati in Aula: non c’è spazio per emendare ancora e rimandare in Senato. Chi facesse finta di non capirlo si assumerebbe una responsabilità gravissima. Per questo come relatore ho chiesto e chiedo il ritiro di ogni emendamento.

In democrazia c’è un tempo per discutere, e lo abbiamo usato eccome, in ogni sede, ma poi arriva il tempo per decidere.
Questo è quel tempo.
Noi oggi vogliamo decidere, consapevoli che un testo così complesso è sempre migliorabile, ma anche consapevoli del fatto che una democrazia che discuta per anni e poi non arrivi a decidere, tradisce se stessa e apre le porte al dispotismo. Tradimento che in questo caso specifico, si tradurrebbe nella perdita di credibilità sull’esiziale terreno del contrasto alla criminalità organizzata.

Esistono per altro ragioni molto concrete per fare di questo testo, Legge senz’altro. All’articolo 34 per esempio, la riforma prevede una importante e delicata delega al Governo sulle misure da definire a sostegno dei lavoratori di imprese sequestrate e giudicate capaci di stare sul mercato. La delega ha bisogno di tempo, pur breve, per essere esercitata, altrimenti andrà in fumo.

Credo che dopo 4 anni di lavoro tutte le forze politiche dovrebbero poter ritenere il testo frutto di una mediazione positiva nella quale riconoscersi, anche chi in prima lettura aveva mosso critiche e aveva votato contrariamente.

Al movimento 5 stelle dico: sulla questione della trasparenza nella gestione di tutto il procedimento e segnatamente nell’affidamento degli incarichi agli amministratori giudiziari, le viti sono state strette anche accogliendo vostre proposte. Per altro alcune di queste norme vanno specificate tempestivamente esercitando un’altra delega, quella di cui all’articolo 33.

A chi, soprattutto nel centro destra, si è preoccupato per una eccessiva attenzione verso le aziende sequestrate, denunciando il rischio di una distorsione della libera concorrenza, dico: non un euro pubblico sarà speso per le aziende finte o incapaci di stare sul mercato senza la spinta mafiosa, saranno liquidate.

A chi si è preoccupato che l’estensione della platea dei soggetti cui possano essere applicate le misure di prevenzione patrimoniali si traduca in una soffocante ingerenza dello Stato nel mercato, dico: al contrario, la riforma non soltanto amplia l’istituto della amministrazione giudiziaria non finalizzata all’ablazione del bene-azienda, ma introduce finalmente l’istituto del controllo giudiziario che oltre ad evitare l’ablazione, evita anche lo spossessamento in fase di sequestro. Un modo per intervenire chirurgicamente a tutela dell’attività di impresa, almeno fino a quando ve ne siano le condizioni.

A chi, concedendo un po’ troppo alla vis polemica, ha cercato di agitare l’opinione pubblica affermando che con questa riforma basterà un semplice indizio di corruzione per vedersi confiscare l’azienda, la casa e il conto in banca, dico: vi sbagliate e soprattutto inducete all’errore! Il meccanismo della prevenzione patrimoniale considera la pericolosità sociale del soggetto soltanto come “innesco”, come condizione inizialmente necessaria, ma non sufficiente: infatti soltanto l’esito della indagine patrimoniale che metta in evidenza l’illecita provenienza del patrimonio ovvero la sua sproporzione rispetto a reddito dichiarato ed attività economica svolta, giustificherà il provvedimento di sequestro. Addirittura possiamo spingerci a dire che la presunta pericolosità sociale del soggetto è una condizione necessaria SOLTANTO inizialmente, prova ne è che il procedimento di confisca continua anche nei confronti del patrimonio imputabile alla persona meno pericolosa che esista in natura: il morto!

La pericolosità sociale del soggetto è condizione necessaria e sufficiente soltanto per l’applicazione delle misure di prevenzione PERSONALI e non di quelle patrimoniali: spero che il punto sia chiaro. Ed è per questo motivo che è condivisibile l’inserimento all’art. 4 del reato di cui all’art. 612 bis, cioè lo “stalking”: l’art. 4 fa riferimento alle misure di prevenzione personali disposte dall’autorità giudiziaria, che non di per se’ appunto, si traducono in misure di prevenzione patrimoniale, pur essendo richiamato dall’art. 16. Ben vengano quelle personali per lo “stolker”! Abbiamo un tragico ritardo ancora in parte da colmare in materia.

A chi ha manifestato la serie preoccupazione che l’allargamento della platea dei soggetti a cui possano applicarsi le misure di prevenzione patrimoniale, possa esporre la normativa a nuove censure da parte della Corte Costituzionale o della Giustizia europea, dico: comprendo la preoccupazione, ma la riforma si fa carico delle censure del passato, risolvendole. Intanto perché alcune di quelle censure, come quelle contenute nella sentenza De Tommaso, pretendevano una maggiore attenzione al sacrosanto principio della prevedibilità delle condotte che vengono sanzionate, riconoscendo per altro piena legittimità al meccanismo della prevenzione. Sul punto rimando al preciso parere formulato dalla I Commissione. Ma a questa pretesa abbiamo risposto individuando le ulteriori condotte attraverso il richiamo puntuale delle fattispecie di reato corrispondenti, le quali per definizione garantiscono un sufficiente grado di tipizzazione e quindi di prevedibilità. Altre censure invece hanno nel tempo riguardato il meccanismo della procedura di applicazione della prevenzione patrimoniale, ritenuto eccessivamente comprimente le ragioni del proposto e dei terzi di buona fede. Queste censure pretendevano una maggiore attenzione al contraddittorio, alla posizione dei terzi di buona fede, alla certezza dei tempi e alla chiarezza degli esiti della procedura medesima. Ed è esattamente in questa direzione che abbiamo lavorato: la parte più corposa e meno discussa della riforma è proprio quella che interviene sulle competenze giurisdizionali, sui tempi, sulle impugnazioni, sulla tutela dei terzi di buona fede, sul rapporto tra procedura di prevenzione e sequestro di natura penale, sul rapporto tra procedura di prevenzione e di esecuzione fallimentare.

A chi ha espresso perplessità sulla estensione dell’articolo 1 agli indiziati di reati contro la PA quando esista anche l’indizio della associazione per delinquere, come ha fatto autorevolmente il Presidente dell’ANAC Cantone, dico: faccio mia la preoccupazione di un utilizzo abnorme di questa previsione e credo che sarà doveroso monitorare la norma ed intervenire tempestivamente per perfezionarla. Lo dico con la serenità di chi è consapevole che in questi quattro anni il Partito Democratico e la maggioranza, in piena sintonia con il Governo, hanno alzato gli scudi contro la corruzione, intanto istituendo la stessa ANAC, ma poi anche aumentando le pene, allungando i termini di prescrizione, prevedendo sconti a chi rompa il patto scellerato collaborando con la giustizia e la confisca penale obbligatoria.

Certo mi conforta sia su questo ultimo punto specifico, sia sul complesso del lavoro che il Parlamento ha svolto fino a qui, il giudizio favorevole del Procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Franco Roberti e il fatto che il 13 Settembre il CSM, normalmente critico nei confronti del Legislatore, abbia approvato una delibera che dedica alla riforma del Codice decine di pagine di analisi e conclude con un inequivocabile invito ad approvarla così com’è, riconoscendo che il testo scioglie diversi nodi da anni lamentati dagli operatori del settore. Non un cenno nelle oltre 40 pagine all’articolo 1. E, come ha fatto notare il Ministro Orlando in Commissione Giustizia, non certo per una forma di amnesia o di cortesia Istituzionale.

Infatti c’è un punto sul quale il CSM mantiene un dissenso e non voglio eluderlo: i beni confiscati secondo la nostra riforma, su questo coincidente tra Camera e Senato, passano nella gestione della Agenzia dopo la confisca di secondo grado, mentre il CSM avrebbe preferito una secca anticipazione, funzionale a sollevare la magistratura da una incombenza ritenuta per alcuni aspetti eccessiva. Intanto voglio chiarire che i motivi di questo dissenso li trovo legittimi, considerato il carico di lavoro delle sedi giudiziarie e aggiungo che abbiamo inteso farcene carico, esplicitando che l’Agenzia debba avere un ruolo di supporto dell’Autorità Giudiziaria fin dal sequestro, estendendo a tal fine il ventaglio degli strumenti per realizzare gestioni provvisorie dei beni fin dal sequestro medesimo. Ma voglio anche rivendicare la ragione politica di questa scelta. La storia di un bene confiscato comincia generalmente dalla così detta “proposta” e finisce con il suo riutilizzo pubblico, passando per sequestro, confisca di primo grado, confisca di secondo grado, confisca definitiva, destinazione, assegnazione, controllo dell’utilizzo. Le maggiori criticità che abbiamo evidenziato nel nostro lavoro di inchiesta, si sono concentrate soprattutto nelle fasi di destinazione/assegnazione e controllo dell’utilizzo. Quanto volte, purtroppo, ci siamo lamentati del numero eccessivo di beni confiscati ormai definitivamente e non assegnati, che restano per anni in stato di abbandono, spesso vandalizzati o occupati abusivamente. Quante volte, purtroppo ci siamo lamentati di beni concessi in utilizzo a soggetti istituzionali o sociali che si scoprono poi lasciati andare alla malora. Ecco, abbiamo voluto con la nostra scelta ribadire che l’Agenzia nasce prima di tutto per gestire queste fasi della storia di un bene: destinazione/assegnazione e controllo. L’idea di una Agenzia Nazionale infatti comincia a manifestarsi proprio quando si impone nella opinione pubblica il valore del riutilizzo sociale dei patrimoni illeciti confiscati: “La mafia restituisce il maltolto” era lo slogan con il quale Libera raccoglieva nel 1995 oltre un milione di firme per quella che sarebbe diventata la legge 109 del ’96. Sull’onda di questa consapevolezza civica, maturerà il bisogno di un soggetto istituzionale, deputato a gestire il patrimonio confiscato, inverando la promessa della 109: la ricchezza sottratta al crimine, diventa risorsa per la collettività. L’Agenzia, fondata nel 2010, è il frutto di questo bisogno e deve poter svolgere fino in fondo questo mandato. Tutto ciò posto, abbiamo finalmente provveduto a potenziare anche l’organico della Agenzia e le risorse economiche a disposizione del direttore, che in futuro, a riforma approvata, potrà anche non essere più un prefetto.

Per intanto però fatemi ringraziare i Prefetti con i quali ho avuto modo di collaborare in questi anni, che hanno dato e danno un importante contributo anche alla elaborazione parlamentare nel loro ruolo di direttori della Agenzia: Umberto Postiglione, che ha terminato l’incarico nella scorsa primavera e Ennio Sodano, che lo ha sostituito.

In conclusione Presidente, vorrei approfondire una questione che ha segnato il dibattito attorno a questa riforma.

Sarà vero che il sistema della prevenzione patrimoniale si giustifica se e soltanto se rimane formalmente agganciato alla fattispecie del 416 bis? Detto altrimenti: il sistema di prevenzione patrimoniale, si giustifica soltanto se ancorato alla eccezionalità del così detto “doppio binario”, a sua volta legato alla emergenza mafiosa, come tale specifica, non estensibile e fatalmente transitoria? Per tanto mollando questo aggancio formale si snaturerebbe il sistema, sottoponendolo anche alle censure della giurisprudenza costituzionale italiana ed europea?
Io non credo.

La prova sta nella storia stessa di questo strumento.
E’ vero che per Pio La Torre e per coloro che lo coadiuvarono nella elaborazione della legge che vedrà la luce soltanto dopo l’assassinio suo e del generale Dalla Chiesa, reato di associazione mafiosa e confisca di prevenzione dei patrimoni illeciti nella disponibilità della medesima organizzazione, furono due facce della stessa medaglia.

E’ quella la legge, la 646 del 1982, che “inventa” il 416 bis ed è quella la Legge che introduce la confisca di prevenzione fondata sull’indizio di appartenenza alla mafia e la provenienza illecita del patrimonio nella disponibilità del medesimo indiziato. Ma è altrettanto vero che in tre distinti interventi legislativi, il primo dei quali risalente alla maledetta estate del ’92, i presupposti di applicazione della confisca di prevenzione si allargarono progressivamente, ma coerentemente, arrivando a comprendere da un lato il meccanismo della così della confisca allargata ex 12 sexties, e dall’altro tutte le fattispecie di reato considerate dall’art. 51 com. 3 bis del CPP.

Non si è sfasciato niente, perché sono state evoluzioni coerenti a due principi.
Primo: le organizzazioni di stampo mafioso mutano le proprie strategie di accumulazione e quindi è fondamentale aggiornare il catalogo di quelle condotte “spia” che possono essere considerate rivelatrici di un movimento mafioso.
Secondo, che mi sta particolarmente a cuore, è che mafiosi si può anche diventare col tempo, ammesso di averne la volontà e la possibilità. Non dobbiamo pensare alle organizzazioni mafiose soltanto come ad organizzazioni “date”, cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona unita, che al più cambiano strategie di accumulazione, perché questa è soltanto una parte del problema. Dobbiamo pensare che “mafioso” è un particolare modo di organizzare il crimine, quello che si avvale della forza di intimidazione del vincolo associativo, capace di generare omertà e assoggettamento e che questo modo mafioso di fare crimine, essendo molto efficace, può essere imparato ed applicato da associazioni criminali che inizialmente nulla hanno a che fare con le organizzazioni mafiose storicamente date, ne’ con il metodo medesimo.

Soprattutto per questo secondo principio del ragionamento sono convinto che abbiamo fatto bene ad estendere l’applicabilità agli indiziati di reati contro la PA, con l’aggiunta del 416.

Non tanto quindi perché le mafie, come ormai siamo soliti dire, sparano di meno e corrompono di più: se fosse soltanto questo il punto, probabilmente avremmo potuto intervenire in maniera più limitata sul testo vigente. Ma perché chi oggi corrompe in maniera sistemica si sta seriamente candidando ad organizzare un potere criminale che se lasciato evolvere, potrà trasformarsi in una vera e propria nuova mafia. Credo che stiamo assistendo a forme sofisticate di nuova accumulazione proto-mafiosa, fondate sull’illecito dirottamento della volontà pubblica a beneficio di interessi particolari. Credo che queste nuove organizzazioni criminali costruiscano il proprio potere soprattutto sulla captazione da remoto di informazioni sensibili, funzionali alla pianificazione di un capillare e pericolosissimo sistema estorsivo, al quale con ogni probabilità fa e farà seguito un significativo cedimento dei soggetti ricattati, che produrrà come conseguenza il moltiplicarsi di comportamenti di connivenza e indebita convenienza, di natura appunto corruttiva.

Resta con tutto ciò vera la lezione di Pio La Torre: la mafia è questione di classi dirigenti. Soltanto che la classe dirigente che aveva negli occhi Pio La Torre ancorava il suo potere alla terra e al calcestruzzo, la nuova frontiera dell’organizzazione del potere mafioso è e sarà ancorata alle banche dati.

Per questo vicende come il disastro provocato dal virus “Wannacry”, l’inchiesta “Occhionero”, l’inchiesta sulla così detta “P4”, i Panama Papers, fino ai più recenti attacchi hacker alla banca dati del Ministero degli Esteri sono vicende assai sintomatiche. Per questo abbiamo ancora molto da studiare e da capire di quel fenomeno criminale, eversivo, sostanzialmente impunito e a lungo irrisolto attraverso mille rivoli carsici, che è stato la P2. Per questo non può essere disgiunto il tema che ci occupa da quello della riforma della così detta Legge Anselmi.

La democrazia vive soltanto attraverso un costante, paziente e tenace lavoro di bonifica delle sue infrastrutture portanti: la politica e l’economia. Come un sistema vascolare che se non manutenuto si riempie di colesterolo fino a collassare, così queste infrastrutture rischiano di venire ingombrate dal colesterolo di mafia e corruzione. Ecco, con questa riforma noi rendiamo più forti gli strumenti con i quali bonificare le nostre infrastrutture portanti e far vivere più a lungo e meglio la Repubblica italiana.

Grazie Presidente

 

Giustizia: via alla Camera a esame pdl su testimoni

(ANSA) – ROMA, 7 SET – E’ iniziato oggi in Commissione Giustizia della Camera l’iter della proposta di legge 3500, Bindi ed altri, recante “Disposizioni per la protezione dei testimoni di giustizia”. Lo annuncia il relatore di maggioranza Davide Mattiello (Pd), auspicando che nel prossimo futuro “non ci sia mai piu’ confusione tra Testimoni e collaboratori”. “I testimoni di giustizia sono cittadini onesti – afferma – che denunciando quello che subiscono o quello a cui assistono si sottopongono ad un pericolo gravissimo per la propria vita, tale da rendere inadeguate le normali misure di tutela: sono una risorsa straordinaria per il nostro Paese, nel quale e’ ancora troppo diffusa la cultura para-mafiosa, per la serie ‘fatti i fatti tuoi e campa cent’anni’”. Il provvedimento in esame, ricorda l’esponente dem, che e’ anche componente della Commissione Antimafia – mira a modificare la disciplina in  materia di testimoni di giustizia, attualmente contenuta nel decreto legge n. 8 del 1991 (legge di conversione n. 82 del 1991) e nelle relative norme attuative". La necessita’ dell’intervento deriva in generale “dalle difficolta’ del legislatore – pur dopo la novella del 2005 (legge n. 45 del 2001) che ha introdotto specifiche disposizioni sui testimoni – di inquadrare organicamente tale disciplina nell’ambito della citata legge quadro del 1991, pensata per i soli collaboratori di giustizia. La proposta di legge, che in Commissione Antimafia e’ stata sottoscritta da tutti i gruppi parlamentari – cosa questa che mi fa sperare in un rapido iter di approvazione – contiene importanti novita’ anche a sostegno di quelle persone inserite in contesti familiari di mafia ma estranee ai delitti ivi commessi, che vogliano rompere quei legami e iniziare una nuova vita. La mafia – conclude Mattiello – si sconfigge anche cosi’”. (ANSA).

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Mafia: comitato ‘Io Riattivo il Lavoro’, urgente riforma  su beni confiscati

martedì 14 ottobre conferenza stampa alla Camera dei deputati

 

 

Roma, 10 ottobre – Il comitato promotore della campagna ’Io riattivo il Lavoro’, costituito da Cgil, Libera, Acli, Arci, Avviso Pubblico, Legacoop, Sos Impresa, Centro Studi Pio la Torre, martedì 14 ottobre, alle ore 11.30, terrà una conferenza stampa presso la sala stampa di Montecitorio per chiedere al Parlamento di varare rapidamente la legge di riforma sui beni confiscati.
La Commissione Giustizia della Camera ha votato infatti un testo legislativo che recepisce i contenuti della proposta di legge di iniziativa popolare presentata dal comitato, ed ora è necessario che le camere procedano speditamente in modo da mettere in campo gli strumenti previsti dal provvedimento.
 
Questo primo importante risultato è il frutto di un’azione straordinaria di quella società civile impegnata nell’azione di contrasto alle mafie rappresentata dai proponenti, ed è dovuto anche alla positiva sinergia fra società ed istituzioni. In proposito vogliamo segnalare il tempestivo ed efficace lavoro della Commissione Antimafia, la cui relazione ha prodotto un voto unanime del Parlamento su due risoluzioni che richiamano, come indicato dalla Commissione stessa, l’urgenza della riforma. In presenza di una piena reciprocità di ascolto e voglia di fare è possibile, come dimostrato da questa vicenda, realizzare passi importanti nella lotta alla criminalità organizzata e nell’azione riformatrice per rilanciare l’occupazione e l’economia legale di cui il Paese ha un profondo bisogno.
Per questo confidiamo che il Parlamento proceda ora speditamente, di modo da rendere il prima possibile operative le misure previste per sostenere il riutilizzo di un importante patrimonio produttivo. Patrimonio che rischia altrimenti l’abbandono e il fallimento: non possiamo permetterci che passi l’idea secondo la quale “quando c’era la mafia si lavorava, se arriva lo Stato si perde il lavoro”.

 

I dati parlano da soli e dimostrano la necessità e l’urgenza di un intervento: le aziende confiscate in via definitiva sono oltre 1700, quelle sequestrate potrebbero essere cinque volte tanto. Le prime sono aumentate del 70% dall’inizio della crisi, il che dimostra senza ombra di dubbio l’abbassamento del controllo di legalità e la pervasività della criminalità nel nostro sistema economico. Tutti i settori produttivi sono coinvolti e una percentuale molto alta riguarda comparti chiave come il terziario (55%), l’edilizia (27%) e l’agroalimentare (6%). È possibile trovare aziende sequestrate e confiscate in tutta Italia, da Nord a Sud. Le regioni in cui se ne contano di più  sono la Sicilia (36%), la Campania (20%), la Lombardia (13%), la Calabria (9%) e il Lazio (8%).

Secondo l’Agenzia nazionale per i beni confiscati, il 90% di queste aziende fallisce a causa dell’inadeguatezza dell’attuale legislazione, incapace di garantire gli strumenti necessari per l’emersione alla legalità e di valorizzare a pieno la loro enorme potenzialità economica.
A tutto questo dobbiamo aggiungere le rilevazioni del ministero della Giustizia del gennaio scorso, riferite al periodo che va dal gennaio del 2009 al settembre del 2013: in questo arco di tempo si sono verificati 5.738 sequestriattraverso procedimenti di prevenzione e si può stimare che altrettanti siano avvenuti attraverso procedimenti penali. Infine, sono in atto richieste da parte dei PM ai giudici per 2.500 sequestri di altrettante aziende.

 

Da anni  chiediamo maggiore trasparenza sui dati relativi al numero di lavoratori e lavoratrici

coinvolti dal fenomeno. Ad oggi l’Agenzia, per sua stessa ammissione, si è dichiarata impossibilitata a quantificarli. Facendo una stima al ribasso potremmo senza dubbio affermare che si tratta di oltre 80 mila persone. Dando per buone le stime dell’Agenzia relative al fallimento del 90% di queste aziende, il quadro che emerge è devastante: circa 72.000 lavoratori e lavoratrici hanno pagato con il licenziamento e la disoccupazione l’inadeguatezza delle istituzioni nel valorizzare l’enorme patrimonio economico costituito dalle aziende confiscate. E ciò avviene proprio in territori già fortemente condizionati dalla zavorra mafiosa. L’intervento dello Stato, al contrario, dovrebbe garantire sicurezza sociale e certezza di un vero e serio percorso di emersione alla legalità.

 

Per questo la riforma può dare un contributo importante all’obiettivo di contrapporre il lavoro legale e pulito allo sfruttamento e alla violenza delle mafie che, inquinando la nostra economia attraverso il riciclaggio di capitali, arrecano un danno strutturale al sistema paese.

Prevenzione e repressione della tratta di esseri umani

CAMERA DEI DEPUTATI

Mercoledì 19 febbraio 2014

183.

XVII LEGISLATURA

BOLLETTINO
DELLE GIUNTE E DELLE COMMISSIONI PARLAMENTARI

Giustizia (II)

ALLEGATO

ALLEGATO

Schema di decreto legislativo recante recepimento della direttiva 2011/36/UE concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime, che sostituisce la decisione quadro 2002/629/GAI (Atto n. 51).

PARERE APPROVATO

  La Commissione Giustizia,
   esaminato lo schema di decreto legislativo recante attuazione della Direttiva 2011/36UE del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la prevenzione e la repressione della tratta di esseri umani e la protezione delle vittime e che sostituisce la decisione quadro del Consiglio 2002/629/GAI;
   ricordato che il provvedimento interviene in attuazione della delega conferita al Governo dall’articolo 5 della legge di delegazione europea 2013 (legge 6 agosto 2013, n. 96);
   rilevato che lo schema di decreto legislativo recepisce in modo non del tutto adeguato alcune disposizioni previste nella direttiva citata;
   rilevato che:
    l’articolo 1 dello schema di decreto legislativo mira a recepire quanto previsto dalla direttiva circa la nozione di vulnerabilità, così come indicata nel considerando n. 12 e nell’articolo 2 della direttiva stessa, nel rispetto del criterio di delega cui all’articolo 5 lettera d) della legge di delegazione europea n. 96/13, che ha previsto che «la definizione di «persone vulnerabili» tenga conto di aspetti quali l’età, il genere, le condizioni di salute, le disabilità, anche mentali, la condizione di vittima di tortura, stupro o altre forme di violenza sessuale, e altre forme di violenza di genere», senza tuttavia apparire idoneo a rispondere agli obiettivi evidentemente perseguiti dalla direttiva europea, la quale, da una parte, al considerando n. 12 fa riferimento alle persone vulnerabili al fine di invocare norme più severe quando le vittime possano essere ricondotte a tale ambito, e dall’altra, all’articolo 2, comma 2, fornisce la definizione di «posizione di vulnerabilità» con riferimento ad uno dei metodi coercitivi di cui al comma 1, per cui occorre che l’articolo 1 dello schema sia integrato con una previsione relativa all’aumento di pena ogniqualvolta vi sia un soggetto in posizione di vulnerabilità;
    all’articolo 2 dello schema di decreto legislativo, nella riscrittura degli articolo 600 e 601 del codice penale, si è voluto fornire una definizione dei reati di riduzione o mantenimento in schiavitù e tratta di persone rispondente a quella della direttiva europea senza, tuttavia, recepire alcune previsioni rilevanti contenute nell’articolo 2 della direttiva stessa, come, ad esempio, la definizione di «posizione di vulnerabilità» così come formulata nella direttiva, la previsione di cui al comma 4 per cui il consenso della vittima è irrilevante in presenza di uno dei mezzi di coercizione di cui al comma 1 dello stesso articolo 2, la previsione di cui al comma 5 relativa ai minori, per i quali la condotta è punita come reato di tratta anche in assenza dei metodi coercitivi di cui al co. 1, per cui sarebbe stato più opportuno formulare la norma nazionale ricalcando esattamente l’articolo 2 della direttiva;Pag. 23
    è condivisibile la scelta di cui all’articolo 3 dello schema di decreto legislativo di introdurre il comma 5-ter all’articolo 398 c.p.p., prevedendo modalità particolari di espletamento dell’incidente probatorio anche in caso di persone maggiorenni in condizione di particolare vulnerabilità. Si sarebbero tuttavia potute introdurre ulteriori norme a tutela della protezione e del diritto di difesa delle vittime e dunque recepire più compiutamente la direttiva europea relativamente a quanto previsto all’articolo 12; tra cui, l’introduzione di una norma che, in linea a quanto disposto dal comma 2 dello stesso articolo 12 della direttiva europea, preveda l’accesso al patrocinio a spese dello Stato delle vittime prive di risorse finanziarie sufficienti secondo i parametri previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 115/02, senza la necessità della certificazione dell’Autorità Consolare del paese di origine, spesso nella prassi non rilasciata, bensì solo previa autocertificazione della persona offesa;
    la condizione di particolare vulnerabilità di cui al predetto comma 5-ter dell’articolo 398 c.p.p. dovrebbe essere desunta non solo dal tipo di reato, ma anche dalla modalità del fatto per cui si procede;
    l’articolo 4 dello schema di decreto legislativo non sembra recepire adeguatamente l’articolo 13, comma 2 della direttiva, che impone agli Stati membri di provvedere «affinché, ove l’età della vittima della tratta di esseri umani risulti incerta e vi sia motivo di ritenere che sia un minore, detta persona sia considerata minore al fine di ottenere accesso immediato all’assistenza, al sostegno e alla protezione a norma degli articoli 14 e 15», in quanto l’articolo 4, comma 2, dello schema di decreto legislativo, in primo luogo, rinvia la disciplina della procedura multidisciplinare di determinazione dell’età a un successivo decreto del Ministro con delega alle pari opportunità, di concerto con il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro dell’interno, il Ministro della giustizia e il Ministro degli affari esteri e in secondo luogo limita ai casi in cui sia «strettamente necessario, l’identificazione dei minori mediante il coinvolgimento delle autorità diplomatiche», mentre sembra prevedere che la procedura multidisciplinare di determinazione dell’età vada applicata in via ordinaria;
    l’articolo 4, comma 2, dello schema non appare pertanto conforme ai criteri di delega stabiliti dall’articolo 5, comma 1, lettera c) della legge 6 agosto 2013, n. 96 che vincola il Governo, ai fini dell’attuazione della direttiva 2011/36/UE, a «definire meccanismi affinché i minori non accompagnati vittime di tratta siano prontamente identificati, se strettamente necessario anche attraverso una procedura multidisciplinare di determinazione dell’età, condotta da personale specializzato e secondo procedure appropriate»;
    nel rispetto di tali criteri di delega, dunque, la disciplina della procedura multidisciplinare di determinazione dell’età deve essere definita nel decreto legislativo di recepimento della direttiva 2011/36/UE e non può essere rinviata a un successivo decreto interministeriale, anche perché si tratta di disciplina coperta da riserve di legge in materia di condizione dello straniero (articolo 10, comma 2 Cost.), di provvedimenti limitativi della libertà personale (articolo 13 Cost.) o di libertà di circolazione e soggiorno (articolo 16 Cost.) o di trattamenti sanitari obbligatori (articolo 32 Cost.) o di prestazioni personali (articolo 23 Cost.), nonché in materia di procedimenti e autorità giudiziarie;
    dal principio in base a cui la determinazione dell’età deve essere condotta secondo procedure appropriate, dunque secondo standard scientificamente attendibili, deriva che gli atti di natura interministeriale in materia debbano essere adottati dal Ministero della Salute o quanto meno di concerto con tale Ministero;
    l’articolo 5 della legge delega specifica che la procedura di determinazione dell’età può essere applicata solo «se strettamente necessario», ovvero nel caso in cui Pag. 24in cui sussistano fondati dubbi sulla minore età della vittima di tratta e non risulti possibile ottenere prove documentali a riguardo;
    rispetto al comma 1 dell’articolo 4 dello schema di decreto legislativo in esame, non vengono altresì chiariti i meccanismi attraverso cui i minori dovrebbero essere adeguatamente informati sui loro diritti, incluso l’eventuale accesso alla procedura di determinazione della protezione internazionale, né sono chiari gli attori a cui spetta tale onere;
    all’articolo 5 dello schema di decreto legislativo è da condividere la disposizione per cui siano previsti specifici moduli formativi sulla tratta nei percorsi di formazione delle Amministrazioni, tuttavia per rendere più efficace tale disposizione sarebbe opportuno che tale disposizione preveda che le associazioni maggiormente rappresentative nella tutela e assistenza delle vittime di tratta siano coinvolte nei moduli formativi, così com’è di prassi in ambito internazionale secondo l’approccio multidisciplinare e sulla scorta di quanto previsto dal considerando 6 della direttiva europea;
    all’articolo 5 dello schema di decreto legislativo sarebbe comunque opportuno fornire un’indicazione più precisa in ordine ai destinatari di tale formazione, alla stregua di quanto indicato nel considerando n. 25 della Direttiva;
    l’articolo 6 dello schema di decreto legislativo non sembra contribuire alla creazione di un sistema efficace di risarcimento delle vittime sotto i seguenti profili: a) risulta utilizzato per il risarcimento delle vittime il Fondo di cui all’articolo 12, comma 3, della legge n. 228 del 2003, istituito per finanziare i programmi di assistenza e integrazione sociale realizzati in favore delle vittime di tratta, Fondo al quale sono assegnate le somme stanziate dall’articolo 18 del decreto legislativo 286/98, i proventi della confisca disposta in seguito ad una sentenza per i reati connessi alla tratta ed i proventi della confisca ordinata per gli stessi delitti ex articolo 12-sexies decreto-legge 306/92. Stante la clausola di invarianza finanziaria di cui all’articolo 11 del presente schema di decreto legislativo la previsione così come è costruita sembra di difficile attuazione; b) non può assolutamente condividersi quanto previsto al comma 2-ter dell’articolo 12, così come modificato, il quale stabilisce una somma forfetaria di 1.500 euro per ogni vittima che appare essere estremamente esigua, avuto riguardo a quanto subito dalle persone vittime di tratta di esseri umani; c) l’entità dell’indennizzo dovrebbe comunque non essere determinata in maniera fissa, quanto piuttosto attraverso l’individuazione di un tetto massimo, lasciando la possibilità di commisurazione diversa dell’indennizzo sulla base del diverso pregiudizio subito; d) la previsione di un termine di decadenza di un anno dal passaggio in giudicato della sentenza penale per la presentazione della domanda di accesso al Fondo rispetto all’obbligo di dimostrazione di aver esperito – dunque in tale breve lasso di tempo – l’azione civile e le procedure esecutive appare incongrua, per cui non è dato comprendere come potrebbe una vittima riuscire a presentare la domanda di indennizzo senza incorrere nella suddetta decadenza se, com’è noto, i tempi della giustizia civile mai le consentirebbero entro lo stesso termine di aver concluso l’azione esecutiva dimostrando così il mancato risarcimento da parte dell’autore del reato;
    in relazione all’articolo 6, al fine di evitare ingiustificate disparità di trattamento, sembrerebbe opportuno modificare i commi 2-quater e 2-quinquies dell’articolo 12 della legge n. 228 del 2003, ivi precisasti, ricomprendendo fra i presupposti della richiesta anche le sentenze di assoluzione dalle quali comunque risulti la sussistenza del reato e, dunque, la condizione di vittima dell’istante, in quanto altrimenti vi sarebbe l’impossibilità per la vittima di ottenere ristoro nel caso di sentenze di assoluzione o proscioglimento degli imputati (per esempio, immunità, prescrizione, mancata prova del dolo, eccetera), pur a Pag. 25fronte di un positivo accertamento dell’avvenuta commissione del reato;
    l’articolo 7 dello schema di decreto legislativo investe del ruolo di «relatore nazionale o meccanismo equivalente» di cui all’articolo 19 della direttiva europea il Dipartimento per le pari opportunità, assegnandogli i compiti previsti dal legislatore europeo agli artt. 19 e 20 (lettere b) e c) dell’articolo 7) oltre che mantenendo in capo al Dipartimento stesso quelli che storicamente erano i compiti della Commissione per il sostegno alle vittime di tratta, violenza e grave sfruttamento presso il Dipartimento stesso (lettera a) articolo 7) e che però non appare chiaro se tale intervento miri ad un definitivo smantellamento della Commissione stessa, scelta che non sarebbe condivisibile nell’ottica della opportunità di mantenere un organismo che, all’interno del Dipartimento – il quale ha molteplici competenze nel campo delle pari opportunità – si occupi esclusivamente del tema in questione;
    l’articolo 8 del decreto legislativo prevede l’introduzione del comma 3 bis dell’articolo 18 del decreto legislativo 286/98 mirando ad unificare i programmi di assistenza e integrazione sociale di cui all’articolo 18 stesso e all’articolo 13 della legge n. 228/2003 creando un unico «programma di emersione, assistenza e integrazione sociale» strutturato in due fasi, una prima di assistenza in via transitoria – evidentemente per quelle situazioni in cui si pone la necessità di verificare la reale situazione e la volontà della persona di aderire al programma – ed una seconda di prosecuzione dell’assistenza e integrazione sociale;
    tale previsione ricalca l’attuale prassi operativa, non è dato comprendere se la formalizzazione di un unico programma comporterebbe una riduzione dei finanziamenti degli enti pubblici e del privato sociale che oggi in tutta Italia si occupano dell’assistenza e protezione delle vittime, eventualità da scongiurare dove si voglia mantenere in vita l’attuale sistema anti tratta;
    l’articolo 8 recepisce soltanto parzialmente l’articolo 11 della direttiva, che prevede una serie di obblighi a carico degli Stati relativi all’assistenza e sostegno alle vittime di tratta di esseri umani, per cui l’articolo 8 dovrebbe essere integrato per dare completa attuazione all’articolo 11 della direttiva;
    all’articolo 9 è apprezzabile la volontà di adottare il Piano nazionale contro la tratta che l’Italia ancora oggi non possiede, sebbene vanti un sistema efficace a tutela delle vittime di tratta, essendo auspicabile che tale Piano contenga linee guida volte alla corretta identificazione delle vittime in adempimento a quanto disposto dal comma 4 dell’articolo 11 della direttiva europea e che sia altresì previsto, sulla scorta di quanto indicato nel considerando n. 6 della direttiva europea, il coinvolgimento nel lavoro di redazione di tale Piano delle associazioni maggiormente rappresentative nella tutela e assistenza delle vittime di tratta siano ampiamente coinvolte;
    l’articolo 10, comma 1, nel rimandare l’individuazione di misure di coordinamento tra i sistemi di tutela delle vittime di tratta e in materia di asilo alle Amministrazioni sembra violare i criteri di delega legislativa stabiliti dalla legge 6 agosto 2013, n. 96, il cui articolo 5, comma 1, lettera b) stabilisce che sia il Governo a «prevedere misure che facilitino il coordinamento tra le istituzioni che si occupano di tutela e assistenza alle vittime di tratta e quelle che hanno competenza sull’asilo, determinando meccanismi di rinvio, qualora necessario, tra i due sistemi di tutela»;
    l’articolo 10, comma 2, nello stabilire che allo straniero «sono fornite adeguate informazioni in lingua a lui comprensibile in ordine alle disposizioni di cui al predetto comma 1 nonché, ove ne ricorrano i presupposti, informazioni sulla possibilità di ottenere la protezione internazionale» non sembra essere sufficientemente chiaro in ordine alle modalità con cui tali informazioni sono fornite e ai soggetti cui spetta detto onere,Pag. 26
  esprime

PARERE FAVOREVOLE

  con le seguenti condizioni:
   1) l’articolo 1 dello schema sia integrato con una previsione relativa all’aumento di pena ogniqualvolta vi sia un soggetto in posizione di vulnerabilità inserendo negli artt. 600, 601 e 602 del codice penale specifiche circostanze aggravanti per i casi in cui la vittima si trovi in condizione di vulnerabilità e altresì indicando tutte le circostanze elencate nel considerando 12 della direttiva europea;
   2) sia integrato l’articolo 2 con la previsione per cui il consenso della vittima è irrilevante in presenza di uno dei mezzi di coercizione indicati nello stesso articolo e con la previsione relativa ai minori, per i quali la condotta è punita come reato di tratta anche in assenza di tali metodi coercitivi;
  all’articolo 3, sia modificato il comma 5-ter dell’articolo 398 c.p.p, prevedendo che la condizione di particolare vulnerabilità si possa desumere essere desunta non solo dal tipo di reato, ma anche dalla modalità del fatto per cui si procede;
   3) all’articolo 3 sia aggiunto un comma che preveda l’accesso al patrocinio a spese dello Stato delle vittime prive di risorse finanziarie sufficienti secondo i parametri previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 115/02, senza la necessità della certificazione dell’Autorità Consolare del paese di origine, spesso nella prassi non rilasciata, bensì solo previa autocertificazione della persona offesa;
   4) sia modificato l’articolo 4 come segue:
    a) Si recepisca l’articolo 13, co. 2 della direttiva 2011/36/UE, prevedendo che, ove l’età della vittima della tratta di esseri umani risulti incerta e vi sia motivo di ritenere che sia un minore, detta persona sia considerata minore al fine di ottenere accesso immediato all’assistenza, al sostegno e alla protezione previste per i minori vittime della tratta; si preveda che a tal fine, i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio devono riferire al più presto alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni sulle condizioni di ogni presunta vittima della tratta di cui vengano a conoscenza in ragione del proprio ufficio, ove vi sia motivo di ritenere che sia un minore;
    b) sia disciplinata la procedura multidisciplinare di determinazione dell’età, nel rispetto dei criteri di delega stabiliti dalla legge 6 agosto 2013, n. 96, in particolare prevedendo che essa possa essere applicata solo se strettamente necessario, ovvero nel caso in cui in cui sussistano fondati dubbi sulla minore età della vittima di tratta e non disponga di documenti di identificazione, anche se scaduti, o non risulti possibile ottenere prove documentali a riguardo;
    c) si preveda che fino a quando l’interessato non sia stato identificato dalla competente rappresentanza diplomatico-consolare, esclusi i casi di domande di asilo, entro un termine ragionevole ovvero quando non siano disponibili i risultati della perizia sull’età disposta dall’autorità giudiziaria, anche su richiesta dell’autorità di pubblica sicurezza, la minore età deve essere presunta e dunque si devono applicare le norme in materia di protezione dei minori, prevedendo in particolare il collocamento in una struttura di accoglienza per minori, la nomina del tutore e la sospensione dell’adozione e dell’esecuzione di tutte le misure che possano lederne i diritti, inclusi i provvedimenti di respingimento, di espulsione e di trattenimento nei centri di identificazione ed espulsione;
    d) si preveda che nel rispetto del principio di presunzione della minore età in caso di dubbio e del principio del superiore interesse del minore, nel caso in cui dal primo esame effettuato sulla base di una determinata metodologia, scelta tra quelle meno invasive possibili, l’età anagrafica stimata risulti compatibile con la minore età, non si devono effettuare ulteriori esami, a meno che ciò sia nell’interesse Pag. 27del minore; qualora invece l’età stimata non risulti compatibile con la minore età si procede ad ulteriori esami che si svolgono con una metodologia multidisciplinare;
    e) l’accertamento dell’età deve svolgersi sulla base di un protocollo multidisciplinare, stabilito e aggiornato almeno ogni tre anni in base agli sviluppi della ricerca scientifica in materia di metodi per l’accertamento dell’età, deliberato dal Consiglio superiore di Sanità, previa consultazione pubblica di associazioni ed esperti, ed è svolto da una équipe medica, alla presenza del legale rappresentante e di un mediatore culturale, a meno che il presunto minore richieda che non siano presenti, previa informazione completa all’interessato del tipo di visita, delle sue conseguenze e della possibilità di rifiutarsi e previo colloquio da svolgersi con il presunto minore, nel rispetto del diritto alla partecipazione di cui all’articolo 12 della Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, alla presenza di un mediatore culturale;
    f) ogni Regione comunichi al Ministero della salute, al Ministero dell’Interno e al Ministero della Giustizia e alle autorità giudiziarie che hanno sede nella regione stessa i centri medici specializzati competenti ad effettuare le perizie per l’accertamento dell’età, da individuarsi in strutture sanitarie pubbliche dotate di reparti pediatrici, capaci di garantire la minore variabilità possibile del giudizio espresso, nel rispetto delle migliori garanzie per il minore. Tali strutture devono garantire che le procedure siano affidate sempre a personale in possesso di competenze mediche, radiologiche, pediatriche, neuropsichiatriche e psicologiche adeguate allo scopo ovvero di personale sanitario dotato di specifiche competenze ed esperienze in materia di metodi per l’accertamento dell’età e che i diversi professionisti adottino criteri di valutazione omogenei, al fine di evitare un’eccessiva difformità negli accertamenti;
    g) si rinvii la disciplina delle norme di dettaglio a un decreto del Ministero della Salute, su conforme parere del Consiglio superiore della sanità e previa consultazione anche delle associazioni di tutela degli stranieri, di concerto con Ministro con delega alle pari opportunità il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro dell’Interno, il Ministro della Giustizia e il Ministro degli Affari Esteri. Nel decreto devono essere comunque disciplinati i presupposti per l’accertamento dell’età, il trattamento del presunto minore nelle more dell’accertamento, l’autorità competente a disporre l’accertamento dell’età, la tutela, la legale rappresentanza e il consenso informato, i metodi e la procedura per l’accertamento dell’età, il principio di presunzione di minore età in caso di dubbio, l’attribuzione della data di nascita e comunicazione degli esiti della perizia, i provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali e la possibilità di stipula di protocolli locali per dare attuazione al protocollo nazionale.

   5) l’articolo 5 sia modificato prevedendo che: a) le associazioni maggiormente rappresentative nella tutela e assistenza delle vittime di tratta siano coinvolte nei moduli formativi, così com’è di prassi in ambito internazionale secondo l’approccio multidisciplinare e sulla scorta di quanto previsto dal considerando 6 della direttiva europea; b) la formazione debba riguardare «operatori di polizia, guardie di frontiera, funzionari dei servizi per l’immigrazione, pubblici ministeri, avvocati, giudici e personale giudiziario, ispettori del lavoro, operatori sociali e dell’infanzia nonché personale sanitario e consolare» nonché eventualmente «altri funzionari pubblici che possono entrare in contatto con vittime di tratta durante il loro lavoro»;
   6) l’articolo 6 sia riformulato in considerazione della criticità procedurale espressa in premessa;
   7) l’articolo 8 preveda le seguenti ulteriori modificazioni:
    a) l’articolo 18 del decreto legislativo 286/98 venga modificato anche al fine Pag. 28di introdurre la facoltatività della denuncia della vittima ai fini del rilascio del permesso di soggiorno, aspetto già presente nel nostro ordinamento ma non esplicitamente previsto da norma di fonte primaria, bensì dal regolamento di attuazione, nello specifico l’articolo 27 decreto del Presidente della Repubblica 394/1999, per cui dopo il comma 1 del richiamato articolo 18 venga introdotto un comma 1-bis che preveda espressamente che il permesso di soggiorno viene rilasciato, in presenza dei presupposti di cui al comma 1 anche in assenza di querela da parte della persona straniera vittima di uno dei reati indicati nello stesso comma;
    b) sia introdotta una norma nella legge n. 228 del 2003 che preveda che il programma di assistenza sia garantito anche a coloro per i quali vi sia un ragionevole motivo di ritenere che siano stati vittime di uno dei reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 c.p. Una simile previsione potrebbe essere inserita dopo il comma 1 dell’articolo 13 della legge 11 agosto 2003 n. 228 (comma 1-bis);
    c) sia introdotta una norma nel decreto legislativo n. 286/98 (articolo 19 comma 2-ter) che preveda che il respingimento o l’esecuzione dell’espulsione di persone per cui vi sia ragionevole motivo di ritenere che siano vittime di uno dei reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 c.p. o comunque di una situazione di grave sfruttamento, resti sospeso fino a non sia accertata la eventuale sussistenza dei presupposti per il rilascio del permesso di soggiorno di cui all’articolo 18 del decreto legislativo 286/98;

  e con le seguenti osservazioni:
   a) valuti il Governo l’opportunità di prevedere che la disciplina sull’accertamento della minore età prevista nell’articolo 4 sia applicabile, salvo che altre disposizioni legislative statali dispongano diversamente, anche nelle ipotesi indicate dall’articolo 349 del codice di procedura penale e in qualsiasi altro tipo di procedimento amministrativo o giudiziario in cui sia necessario l’accertamento dell’età della persona straniera o apolide coinvolta;
   b) in riferimento all’articolo 4 e, in particolare, ai minori stranieri non accompagnati richiedenti protezione internazionale, valuti il Governo l’opportunità di modificare il decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25, nel seguente modo: a) dopo il comma 3 dell’articolo 4 è inserito il seguente: «3-bis. Presso ogni Commissione territoriale è istituita una sezione specializzata nell’ascolto dei minori stranieri non accompagnati richiedenti protezione internazionale. Ove necessario tali sezioni possono essere composte anche da membri onorari, con comprovata esperienza nell’ascolto dei minori. La presenza dei membri onorari è disciplinata con apposito decreto del Ministro dell’interno, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente disposizione»; b) al comma 3 dell’articolo 13 è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «In ogni caso si applicano le disposizioni dell’articolo 33-bis, comma 2, del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286»; c) al comma 1 dell’articolo 16 è aggiunto, in fine, il seguente periodo: «Per i minori stranieri non accompagnati si applicano le disposizioni dell’articolo 76, comma 4-quater, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115»; d) al comma 5 dell’articolo 26, dopo le parole: «Il tutore» sono inserite le seguenti: «ovvero il responsabile della struttura di accoglienza ai sensi dell’articolo 3, comma 1, della legge 4 maggio 1983, n. 184, e successive modificazioni»;
   c) il Governo valuti l’opportunità che il meccanismo equivalente previsto all’articolo 7 per le funzioni che è chiamato a svolgere sia un organismo indipendente, analogamente a quanto previsto in altri paesi dell’Unione Europea;
   d) valuti il Governo l’opportunità di prevedere all’articolo 9, sulla scorta di quanto indicato nel considerando 6 della Pag. 29direttiva europea, il coinvolgimento delle associazioni maggiormente rappresentative nella tutela e assistenza delle vittime di tratta nel lavoro di redazione del «Piano nazionale d’azione contro la tratta e il grave sfruttamento degli essere umani»; che deve contenere anche norme di prevenzione ed educazione volte a ridurre la potenziale domanda di prestazioni nei confronti delle persone vittime della tratta;
   e) valuti il Governo la compatibilità tra i criteri di delega legislativa stabiliti dalla legge 6 agosto 2013, n. 96 e la previsione di cui all’articolo 10, comma 1, laddove si rimanda l’individuazione di misure di coordinamento tra i sistemi di tutela delle vittime di tratta e in materia di asilo alle Amministrazioni coinvolte (e non al Governo);
   f) valuti il Governo l’opportunità di chiarire meglio all’articolo 10 comma 2 le modalità con cui le informazioni devono essere fornite e i soggetti cui spetta detto onere.