Gerusalemme Est, 3 Agosto 2014
Quando Roberto Della Rocca, ebreo, tornato a vivere in Israele da una trentina d’anni, tra i massimi dirigenti di Merez (partito della sinistra israeliana) ci dice, commosso: “Ho 3 figli nell’esercito, non voglio doverli seppellire e quindi credetemi, nessuno vuole la pace più di me”. Io gli credo e questo non fa che aumentare la pena, che si è andata accumulando lungo tutta la giornata. Perché mentre gli occhi cercano la pace, ovvero la giustizia, le narici respirano odio dalla mattina alla sera. Una polvere sottile che provoca, quasi immancabilmente, la silicosi.
Dodici ore prima infatti eravamo sulla Spianata delle Moschee, nel cuore di Gerusalemme, quando un gruppo di donne musulmane, muovendosi compatte e scandendo ad alta voce la frase Allah Akbar (dio è il più grande) impedisce fisicamente l’accesso ad un gruppo di ebrei, accusati (ci spiega la nostra guida) di essere tra quelli che vorrebbero espropriare i musulmani delle moschea di Al-Aqsa, secondo luogo sacro per l’Islam, la più antica tra le moschhe della spianata, per farne una Sinagoga. La polizia israeliana molto professionalmente controlla la situazione perché non degeneri, che infatti non degenera.
Qualche ora più tardi siamo a Hebron, in Cisgiordania e quindi teoricamente sotto l’autorità palestinese. La città, erede di una storia colma di significati e lunga almeno 5000 anni, custode della tomba di Abramo, culla di alcune delle frange più oltranziste di israeliani, è in realtà sottoposta ad un regime amministrativo più complesso che dal 1997 affida ad Israele il controllo di circa il 20%: questo fa di Hebron una delle sintesi più plastiche e drammatiche delle mostruosità cui è capace di arrivare l’umanità, quando si arrotola nel conflitto. Una città che vive segregata e costantemente in allerta.
Qui ci capita l’esperienza che più mi ha segnato e che mi ha fatto pensare alla “silicosi dell’odio”: arriviamo nella strada proibita ai palestinesi, Shouada street, controllata dall’esercito israeliano. Ci giungiamo accompagnati da un giovane attivista palestinese, protagonista insieme ad altri nonviolenti di un centro culturale aperto all’interno di una struttura lasciata dall’esercito israeliano e contigua alle case di alcuni coloni. Lui è consapevole che da quel punto dovrà separarsi da noi e raggiungerci a valle di quella strada, avendo fatto il percorso consentito ai palestinesi. Un attimo prima di separarci, improvvisa si accende una discussione, subito molto tesa tra un israeliano, che ci incrocia davanti alla Sinagoga, il nostro accompagnatore palestinese e noi stessi, che veniamo tacciati di essere anti-semiti e di volere la morte di tutti gli ebrei. La situazione si fa spiacevole e i toni si alzano. Noi, come sempre succede quando il dialogo lascia il campo alla semplificazione dell’aggressione, veniamo accomunati nel giudizio e dal giudizio e ci ritroviamo, chi a parole, chi con la postura a dare voce al nostro disappunto.
Soltanto in quel momento noto un bambino israeliano, che stando accanto al giovane soldato che presidia il diverbio, osserva la scena. Non avrà più di otto anni. Mi si ghiaccia il sangue quando mi accorgo che in quella scena, in cui ognuno è schiacciato nel ruolo previsto dal copione, nessuno di noi gli sta sorridendo. Nemmeno lui ci sorride. E’ assurdo: è un bambino e in qualunque altra circostanza lo avremmo trattato come tale. Ma non in quel frangente, di tensione e contrapposizione. Lui non lo sa e francamente ci ho messo troppo a comprenderlo anche io, ma in quel momento abbiamo respirato tutti la polvere sottile dell’odio.
Il bambino non sa chi siamo e cosa diavolo stiamo facendo, ma sono certo che istintivamente capisce che siamo arrabbiati anche con lui e che è naturale che lui sia arrabbiato con noi. Ovviamente è tutto sbagliato, ma quegli sguardi duri, quei sorrisi mancati, quell’andarcene inseguiti dalle urla dell’israeliano che non smette di dirci che vogliamo far morire tutti gli ebrei, gli resteranno scolpiti nella retina della coscienza. Dopo alcune centinaia di metri percorsi, mi giro ancora una volta per guardarlo: è rimasto accanto al giovane soldato, che gli sta insegnando ad usare un nunchaku.
Da Hebron raggiungiamo Betlemme dove, dopo aver visitato una straordinaria comunità che accoglie bambini bisognosi e malati, senza alcuna discriminazione, veniamo accolti nel conservatorio della Città, dal suo animatore culturale, Michele Cantoni, di evidente origine italiana.
Michele è un violinista, molto impegnato, il conservatorio è un gioiello, che fa brillare la speranza. La speranza che ci si possa soffiare via dal naso la polvere sottile dell’odio, anche educandosi alla bellezza e poche cose sono belle quanto la musica. Soprattutto se la si impara a fare e a fare insieme. Ore dopo i dirigenti del Merez ci confermeranno che anche per loro la priorità sulla quale investire per uscire dalla trappola dell’odio è proprio la scuola.
Una scuola che sia quanto più laica e plurale possibile, che educhi alla convivenza e quindi alla reciproca comprensione, una scuola che faccia fare esperienza del bene e del bello che si possono vivere insieme, imparando e sperimentando. La musica in tutto questo ha un ruolo centrale. Peccato che ad oggi nel Conservatorio di Betlemme siano iscritti soprattutto Palestinesi, anche se, ci assicura Michele, è aperto a chiunque.
Approfittiamo dell’ospitalità del Conservatorio anche per incontrare una delegazioni di giovani cooperanti italiani, attivi in Cisgiordania e a Gaza. Rimaniamo tutti colpiti dalla loro passione e dalla precisione con la quale ci pongono le questioni cui tengono: che l’Europa sia più coraggiosa nel chiedere ad Israele di fermare l’attacco, più coraggiosa nel condizionare questa richiesta alla ripresa dei negoziati, a partire dalla piattaforma egiziana, più coraggiosa nel distinguere tra anti-sionismo e anti-semitismo, più coraggiosa nel dire che non è la “Pace” che stiamo cercando, ma la “Giustizia”, concetto ben più rigoroso.
Così torniamo al punto di partenza di questa pagina di diario: il lungo, complesso, franco confronto con gli israeliani di Merez.
Per loro non c’è alternativa alla soluzione “due popoli, due Stati”, la domanda angosciante che si fanno piuttosto è “quante persone dovranno ancora morire prima che si capisca che non possiamo che fare così?”. Il problema è che a molti, sugli opposti fronti, fa comodo questo permanente stato di agitazione, che esplode di tanto in tanto in vera e propria azione bellica. Perché la guerra è anche un business, che paga in moneta corrente qualora si abbiano i traffici giusti tra le mani, ma che paga anche in termini di rendita di posizione, quando legittima come necessari approcci violenti e liquidatori.
Per il bene di Israele e per il misto di rispetto e di affetto che provo per tutti quegli israeliani che con coraggio obiettano al dogma domestico: “degli arabi non ti puoi fidare mai”, mi auguro che le forze di sinistra, laiche e moderate presenti in Parlamento, come Merez, abbiamo la forza per smascherare la solita mistificazione delle destre, per le quali la “sicurezza” fa rima con dispiegamento di apparati repressivi. No! La sicurezza di cui tutti abbiamo bisogno dipende soprattutto da quanto quel bambino si sentirà rassicurato e comprenderà che gli altri, pur diversi, non sono a priori dei nemici. Perché sono esseri umani come lui.
Davide Mattiello
Deputato, membro del gruppo Parlamentari per la Pace