Il processo che si apre a Milano per l’omicidio Caccia è una occasione forse irripetibile per guardare attraverso il buco stretto della serratura, l’arresto di uno dei presunti killer, una camera vasta e finora inviolata. Molto dipenderà da come sarà praticato il processo, da quali linee di azione si terranno e tutti avranno una parte di responsabilità: procura, corte e parti civili. E’ utile guardare all’omicidio Caccia attraverso la categoria della “convergenza” proposta dal prof Dalla Chiesa, che mai come in questo caso si fonde opportunamente con le parole di Falcone “si resta uccisi quando si entra in un gioco troppo grande”: l’omicidio del Procuratore Caccia infatti fa pensare alla saldatura di diversi interessi, quelli della ‘ndrangheta operante a Torino e desiderosa di accreditarsi come organizzazione egemone, quelli di un ambiente opaco e meschino forse abituato a rendite di posizione, fondate sulla corruzione e sulla connivenza e quelli grandi di chi già allora, come prima e come poi, trovava dell’utilità nel mantenere aperti rapporti di agibilità con la criminalità mafiosa, perché tornassero utili all’occorrenza. Siamo pur sempre nel 1983: da meno di un anno il Parlamento aveva approvato il 416 bis, dopo gli omicidi La Torre e Dalla Chiesa, che sarebbe servito al pool di Palermo e in particolare a Falcone per raccogliere le confessioni di Buscetta, collocandole finalmente nell’alveo giuridico del reato associativo. Quante “contro misure” a tutela del famigerato rapporto tra mafie e pezzi di Stato si attivarono fin dagli albori di quello che sarebbe diventato il maxi processo? Uccidere un magistrato a Torino e fare in modo che la responsabilità ricadesse sulle BR, poteva essere una di queste? La strage del rapido 904 è del dicembre 1984.