Il testo integrale del mio discorso alla Camera sull’introduzione del Reato di Depistaggio e di Inquinamento Processuale. Per colpire chi avvelena la ricerca della verità…

Grazie Presidente,
L’approvazione del nuovo reato di depistaggio e inquinamento processuale rappresenta una presa d’atto doverosa e dolorosa: la democrazia nel nostro Paese infatti è stata ed è spesso avvelenata da chi ostacola la ricerca della verità, almeno di quella particolare verità che è quella giudiziaria.
E’ una presa d’atto dolorosa, perché ricorrere all’ennesima nuova norma penale, rappresenta pur sempre un fallimento, per chi come me ha un’idea di Stato fondata sulla libertà della persona e sulla presunzione di onestà.
Non è con il diritto penale che si monda la società.
Quando si arriva a dover intervenire attraverso la sanzione penale di una condotta tanto radicata e diffusa come quella della quale trattiamo oggi, si sta con ciò stesso denunciando una grave deficienza democratica sul piano culturale. Il diritto penale non basterà mai, se non si agisce efficacemente la leva culturale, attraverso esempi credibili di condotte virtuose.
Questa responsabilità sta in capo prima di tutto a chi rappresenta le Istituzioni.
Ciò posto, sanzionare in maniera specifica e severa la condotta di chi impedisce, ostacola, svia indagini e processo penale, farlo in maniera tanto più grave se l’autore della condotta è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio è un atto dovuto alle innumerevoli vittime di questa forma subdola di violenza.
Queste condotte infatti sono particolarmente odiose perché sabotano il rapporto fondamentale che tiene insieme uno Stato: il rapporto di fiducia tra cittadino e Istituzioni. Queste condotte colpiscono il rapporto fiduciario proprio nel momento di massima fragilità del cittadino, quando cioè il cittadino è esposto al bisogno, alla paura, al pericolo, all’angoscia e si appoggia allo Stato, vi si affida, come farebbe il malato con il medico. Sono condotte che avvelenano l’intera convivenza civile e dunque facciamo bene a colpirle.
La mia esperienza mi porta a sottolineare alcune specifiche valenze di questa nuova fattispecie, consapevole che, come ha già fatto il relatore on. Verini e come farà certamente il proponente on. Bolognesi, altre e ugualmente importanti valenze debbano essere tenute presenti.
Il nuovo articolo 375 prevede di colpire, tra le altre, la condotta di chi “Immuti artificiosamente lo stato delle persone connesse al reato”, a cosa dobbiamo pensare leggendo questa frase? Dobbiamo pensare, tra le altre, alla possibilità che qualcuno avvicini un detenuto, magari un detenuto al 41 bis e gli suggerisca quale parte recitare in commedia. Dobbiamo pensare, tra le altre, alla possibilità che qualcuno avvicini un collaboratore di giustizia e gli suggerisca quale parte recitare. Ecco perché grande attenzione il Parlamento deve mettere costantemente nel vigilare su quelle delicate articolazioni dello Stato che congiungono i Servizi di Informazione, come l’AISI, l’Amministrazione penitenziaria, la Magistratura. Le articolazioni sono necessarie in qualunque corpo, pena la paralisi, e quindi non mi scandalizza che esistano dei protocolli di collaborazione tra AISI e DAP, ma sono altresì consapevole che è proprio nelle articolazioni che si concentra il potere più grande. Anche per questo la drammatica e complessa vicenda del collaboratore Scarantino va esplorata in tutte le sue sfaccettature. Destino amaro quello di Scarantino, ritenuto credibile quando ricostruisce l’organizzazione dell’attentato in Via D’Amelio, contribuendo in maniera decisiva a far condannare all’ergastolo degli innocenti, soltanto recentemente scarcerati e non credibile quando già nel 1995 e poi nel 1998, ritratta tutta la confessione, denunciando le violenze subite.
Così come va esplorata la vicenda del detenuto Alberto Lorusso, che per un breve quanto turbolento periodo, tra l’Aprile e il Dicembre del 2013, ha fatto compagnia al boss Totò Riina nel carcere di Opera. Un periodo caratterizzato da una sorprendente loquacità del Riina, che, per fare un esempio, il 31 Maggio del 2013 sente l’irrefrenabile bisogno di confidarsi con gli agenti della penitenziaria che lo stanno portando in udienza, ammettendo per la prima volta la trattativa con lo Stato, per poi procedere a getto continuo con insinuazioni più o meno minatorie all’indirizzo del direttore del Carcere di Opera dott. Siciliano e dei PM palermitani, primo tra tutti il dott. Di Matteo, cui arrivò a pronosticare la fine del tonno. Una vero e proprio fuoco d’artificio.
Così come, per rimanere in tema, va esplorata la vicenda del collaboratore Nino Lo Giudice, detto “ ‘o nano” che irrompe sulla scena per mascariare a puntino due impegnati e stimati magistrati della DNA: il dott. Gianfranco Donadio e il dott. Alberto Cisterna. Sullo sfondo di questa scena si intravede un altro detenuto eccellente al 41 bis, che forse sarebbe potuto diventare un collaboratore di giustizia determinante, che purtroppo le inopinate e infauste cadute in cella e il repentino peggioramento delle condizioni di salute, hanno ormai relegato in una condizione di incapacità fisica e psichica irrimediabile.
Tornando al testo del 375 si legge: “distrugge, sopprime, occulta o rende comunque inservibili, in tutto o in parte, un documento”.
Come non pensare al 5 Agosto 1989 quando qualcuno sparò all’agente Nino Agostino e a sua moglie Ida, uccidendoli. Come non pensare a quelle ore concitate che seguirono il duplice omicidio, ore nelle quali venne porto via, letteralmente, un “freco di carte” dall’armadio di Agostino, carte mai più ritrovate. Carte su cui Agostino aveva appuntato nomi e relazioni. Un lavoro quello di Agostino legato in qualche modo a quello dell’agente Piazza, anch’egli ucciso pochi mesi dopo e al fallito attentato contro Falcone all’Addaura il 20 Giugno dello stesso anno. Un lavoro prezioso visto che Falcone, presentatosi al funerale di Agostino disse “A questo ragazzo devo la mia vita”.
Quel “freco di carte” sarebbe stato portato via da un agente di Polizia intervenuto sul posto, successivamente scoperto, processato, ma per il quale nel Febbraio del 2014 la Procura di Palermo ha dovuto chiedere l’archiviazione per intervenuta prescrizione.
Sulla scena di quell’omicidio, come in altre circostanze, fa la sua comparsa un personaggio inquietante, noto alle cronache come “Faccia di Mostro”. Un agente dei Servizi? Non si sa.

Quel che sappiamo è che proprio negli ultimi mesi è emerso un possibile collegamento tra le indagini di almeno quattro Procure, le dichiarazioni di una collaboratrice di giustizia della famiglia Galatolo e un uomo, che risponderebbe alle caratteristiche di Faccia di Mostro. Stupisce francamente e preoccupa, alla luce di tutto ciò, che non risultino provvedimenti di custodia volti ad evitare che nelle more, costui decida di rendersi irreperibile.

Ancora per la serie “carte che scompaiono”, come non pensare all’omicidio del procuratore della Repubblica di Torino Bruno Caccia, ucciso il 26 Settembre del 1983. La sentenza, che non ha per altro individuato gli esecutori materiali, parla di una ‘ndrangheta torinese desiderosa di mettersi in mostra con i mafiosi operanti in Città, togliendo di mezzo un giudice integerrimo e quindi scomodo. Soltanto un omicidio “dimostrativo”, insomma. Eppure il tentativo di far ricadere la colpa dell’omicidio del giudice sulle BR, fu sofisticato e apparentemente incongruo, purtroppo derubricato. Salvo poi tornare fuori anni dopo, anche in questo caso grazie ad intercettazioni telefoniche, nelle quali un magistrato, allora indagato, fa riferimento al testo della falsa rivendicazione delle BR trovato niente meno che a casa del noto Pio Cattafi, durante una perquisizione. Fatto che se accertato, aprirebbe ben altro scenario, data la caratura criminale del Cattafi. Che fine ha fatto il materiale sequestrato durante quella perquisizione?

Ma torniamo al 375, dove si legge ancora: “Forma artificiosamente gli oggetti indicati nel numero 2”, cioè oggetti da impiegare come elementi di prova. Come non pensare alle false bottiglie Molotov fatte rinvenire nella Diaz di Genova, nella notte del 21 Luglio 2001? La Cassazione con la sentenza del 5 Luglio del 2012 ha messo un punto giudiziario su questa drammatica vicenda, rendendo definitive le 25 condanne ad esponenti anche di vertice della Polizia di Stato. Una sentenza che ha in fine dato ragione al lavoro lacerante, spesso osteggiato, ma rigoroso e determinato di magistrati come il dott. Enrico Zucca, cui credo debba andare la nostra più sentita gratitudine. Va detto che questa sentenza non è riuscita a ricucire lo strappo provocato da tanta spietata violenza: le bottiglie Molotov portate di soppiatto all’interno della scuola, sono sintomo di quello stesso mal inteso spirito di corpo, che poco ha a che fare con la lealtà istituzionale e che ha determinato la sostanziale impunità dei condannati.

Ecco che analizzando questi comportamenti ci ritroviamo immersi in quella miscela esplosiva fatta da un lato di appartenenza all’apparato, che esige fedeltà e promette protezione e dall’altro di forte stress generato dal pericolo e dal bisogno di essere tempestivi e risolutivi.

Quella miscela che spesso viene sublimata nel concetto di “Ragion di Stato”: concetto necessario e allo stesso tempo rischioso. Proprio dentro questa miscela, come agente dissuasore, gettiamo oggi il nuovo reato di “depistaggio”, così come spero presto getteremo il nuovo reato di “tortura”.

Perché non accada mai più che qualcuno pensi di difendere l’autorità degli apparati di polizia con l’impunità. Che errore! Non è l’impunità che alimenta l’autorità. L’impunità è una bestemmia in una democrazia fondata sul principio di uguaglianza davanti alla legge, sancito dalla nostra Costituzione.

E i primi a saperlo, che sono anche i primi a patirlo, sono proprio gli operatori e le operatrici di polizia che quotidianamente con sacrifici personali, dotazioni spesso inadeguate, professionalità e dedizione fanno il proprio dovere. Come quelli la cui memoria siamo andati ad onorare 10 giorni fa nel sacrario presso la scuola di alta formazione della Polizia, morti con Falcone e Borsellino.

Bene poi che l’articolo 375 non preveda una condotta, come si suol dire, “propria”, mentre “propria” è l’aggravante, perché l’attività di depistaggio non necessariamente è posta in essere da un Pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. Penso ai giornali che all’indomani dell’omicidio di don Peppe Diana il 19 Luglio del 1994, accreditarono strumentalmente la pista passionale, lasciando intendere che don Diana fosse stato ucciso perchè gli piacevano le donne.

Spesso infatti il “depistaggio” è attività sintomatica di alleanze ignobili tra organizzazioni criminali in senso stretto e quell’area vasta composta da esponenti delle Istituzioni, dei partiti e dell’economia. Detto altrimenti: il “depistaggio” è semplicemente l’intera storia del rapporto non risolto tra mafie e Stato. Quel rapporto che passa attraverso l’omicidio di Peppino Impastato, si disse morto mentre cercava di preparare un attentato terroristico nel 1978, l’omicidio di Mauro Rostagno, si disse morto per questioni di droga e amorazzi nel 1988, l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, si disse morti per un tentativo di rapina finito in tragedia nel 1994.

Danilo Dolci, militante nonviolento, maestro, italiano di cerniera e di confini disse che la Prima Repubblica nacque con la strage di Portella della Ginestra il 1° Maggio del 1947 e che la Seconda nacque con la strage di Capaci il 23 maggio 1992. In questo modo di ragionare, ahinoi, con l’espressione “nascere” si deve intendere quel momento tragico e immancabile, nel quale i poteri reali che si agitano sul fondo del barile, trovano una temporanea composizione, eliminando di comune accordo i nemici pericolosi e spartendosi in maniera soddisfacente le risorse più preziose, a cominciare dallo Stato. Portella della Ginestra e Capaci, insieme a via D’Amelio e alle bombe del ‘93 sono intrise di depistaggi, sono intrise di quegli “indicibili accordi” evocati dal compianto Consigliere D’Ambrosio.

Sarebbe davvero bello e giusto poter mettere in un cassetto questo nuovo reato, contando piuttosto sulla onesta collaborazione di chi sa le cose. E’ davvero giunto il tempo che si converta alla lealtà democratica chi ha fin qui vissuto di altre, maledette, lealtà.

In attesa che questo avvenga, attrezziamoci prudentemente con questo nuovo strumento.

Roma, 28 Luglio 2014

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