Piano Strategico Metropolitano 2021-2023: un atto d’amore e politico

Il Piano Strategico Metropolitano 2021-2023, Torino Metropoli Aumentata, è un atto d’amore per il nostro territorio ed insieme è un atto politico e meno male che talvolta le due cose coincidono ancora. Uno sforzo che raccoglie quanto di meglio la Torino metropolitana ha già saputo esprimere in questi ultimi decenni, proiettandolo oltre, perché possa essere di più di così. E proprio in questo sta “l’atto d’amore”, nel volere “essere di più”: cento anni fa nasceva uno dei più grandi pedagoghi del ‘900, Paulo Freire, che in portoghese sintetizzava questo concetto con le parole “ser mais”. Gli potrebbe fare eco, a ideale completamento dell’idea, un altro straordinario pedagogo e militante come Danilo Dolci che amava dire: “Si cresce soltanto se sognati”. Sognare una Torino più grande, nel senso declinato dal PSM, cioè ancora più inverata nelle sue premesse, nel suo capitale potenziale, ecco l’atto d’amore verso il territorio metropolitano e quindi verso le migliaia di persone che per caso o per scelta lo hanno eletto a domicilio delle proprie aspettative di vita.

Perché tutto ciò che sta scritto nel PSM ha a che fare con niente di meno che con la ricerca della felicità.

C’è una questione sulla quale voglio soffermarmi: su quali “gambe” potrebbe camminare questo ser mais?

Riprendo un passaggio centrale della visione che sta alla base del PSM:

“Una città aumentata è intelligente – e non solo smart – perché capace di generare un ecosistema abilitante basato sull’hardware fornito dalla qualità degli spazi urbani e sul software codificato dalla cittadinanza attiva” (Carta)
Il “software” codificato dalla cittadinanza attiva, cioè da chi ha adeguati strumenti culturali per cogliere le opportunità e trasformarle in progetto. Dalle mie parti si direbbe: facciamo giocare chi ha le scarpe da pallone.

E chi no?
Il rischio che l’hardware abilitante venga opportunamente cavalcato da chi ha già le scarpe da pallone è sempre dietro l’angolo, anche perché quando i decisori pubblici e privati destinano risorse finanziarie al potenziamento dell’hardware abilitante si aspettano, comprensibilmente, un certo ritorno in un certo tempo, il che a volte rischia di far restringere la platea dei soggetti destinatari a quanti diano più garanzie di saper mettere a frutto i talenti ricevuti.
La questione non è elusa dal PSM bisogna riconoscerlo, specialmente nell’asse 5 che fa riferimento alla equità e alla coesione sociale.
Infatti nella nota introduttiva all’asse 5 si legge:
“Bisogna cominciare a rivolgersi a un tipo di strumenti che riconoscano la non linearità dei processi, il ruolo centrale dei fattori abilitanti e il fatto che probabilmente dobbiamo cominciare a cambiare un po’ l’unità di analisi” (Calderini)

Proprio così: i processi sociali tutto sono fuorchè lineari. Di “lineare” c’è soltanto lo scorrere del tempo, il che per altro dovrebbe mettere a tutti un po’ più di brio.

Che fare allora?
Io credo che in concreto una delle scelte che aiuterebbero a tenere quanto più ampia la platea del “ser mais” sarebbe quella di investire di più su quelli che Freire definirebbe “animatori d’ambiente” cioè persone capaci di stare a metà strada tra l’hardware abilitante ed i tanti spaesati che rischiano di passare per Torino come acqua sui vetri. Niente di completamente nuovo: a Torino esiste una gamma vasta di “animatori d’ambiente”. Sono i mediatori culturali, gli assistenti sociali, gli animatori di comunità e scolastici, gli insegnanti, gli operatori dei centri per l’impiego … fino ai “navigator”! Persone molto spesso competenti e dedite, che svolgono tutte, ciascuna col proprio specifico, quel fondamentale servizio civico che contribuisce a far trovare o ritrovare la bussola a chi fatica a fare rotta. L’ISTAT ci dice che il primo anno di pandemia ha gettato nella povertà assoluta un milione di persone in più in Italia. Non c’è niente di più esplosivo di una umanità rassegnata, che non aspetta più nemmeno una buona notizia.

Bisognerebbe dunque riconoscere maggiormente il valore di questo lavoro, perché è il lavoro che alimenta ancora e nonostante tutto quella “scala mobile” sociale che è il cuore della missione emancipante che la nostra Costituzione affida alla Repubblica.

Infine poco più di un “salva con nome”: Torino non è diventata capitale perché era una città grande, ma è diventata una grande città perché qualcuno l’ha voluta capitale.

Leggi l’articolo di Repubblica qui

Agli ‘alchimisti’ delle candidature: Torino non è un rendering!

Torino non è un rendering. Lo dico agli ‘alchimisti’ delle candidature, non basterà trovare qualcuno in grado di fare di Torino un aeroplano, se non sarà in grado di farci salire tutti i torinesi, che non ne vogliono sapere di stare a bordo pista con le bandierine colorate. Basta ascoltare quello che si dice in strada, c’è esasperazione, stanchezza, paura e non è soltanto questione di periferie. Tanti Torinesi non sanno come ripartire a Settembre, non sanno se dovranno scegliere tra lavoro e figli. La misura della delusione fa un arco nel cielo di Torino più grande di quello Olimpico e mentre la Città lancia la propria candidatura per le Universiadi, al villaggio Olimpico ex MOI bisogna ancora finire di portare via le macerie, intanto gli unici che in quel contesto hanno resistito per anni, facendo accoglienza e generando lavoro vengono lasciati soli a leccarsi le ferite. A Torino ci sono ancora tante persone pronte ad incoccare i propri sogni in questo arco di Città ma altrettanti sentono di non essere buoni più per alcun reclutamento.

Questa Torino non è la Milano astronave che ha eletto Sala e nemmeno la Torino orgogliosa che ha eletto Castellani, sembra più la Torino che elesse Novelli: una Torino dove sospetto e inquietudine rischiarono di soffocare solidarietà e diritti. Nell’ultimo libro di Fabio Geda ed Enaiat Akbari ad un certo punto si cita una frase di Danilo Dolci alla quale siamo molto legati: ‘Si cresce solo se sognati’: certo che la ‘visione’ è importante, ma deve sapersi mischiare di persone, le deve ri-guardare. Danilo Dolci aveva una visione chiara e lungimirante di come dovesse trasformarsi il Paese, ma non ne fece un dossier in carta patinata da presentare nel foyer di un teatro, si sdraiò sul pagliericcio dove nei bassi di Trappeto era morto di stenti un ragazzino a cui lo Stato aveva garantito soltanto pulci e paura e cominciò lo sciopero della fame perché quello Stato si convincesse a portare almeno le fogne a Trappeto. Le fogne a Trappeto si fecero e anche gli ultimi della fila sentirono di poter valer di nuovo qualcosa.