E’ in atto un conflitto nel quale agiscono più forze, alcune attrezzate soltanto di invidia e meschinità, altre no e bisogna stare attenti. In gioco c’è una certa idea di democrazia, che in Italia, non può che fare rima con l’idea di un’Italia senza mafie.
In campo ci sono le mafie che continuano a trafficare, ad uccidere e a corrompere (certo non come accadde fino al 1992, ma su questo tornerò in fine), ci sono le mafie che usano l’antimafia, cercando di infiltrarsi. C’è l’universo dell’antimafia, quella istituzionale e quella sociale, venato da inadeguatezze e talvolta da condotte semplicemente illegali: le contraddizioni e i limiti sono sotto gli occhi di chi voglia leggere con onestà la situazione.
Ma in questa complessità, ci sono tre poste, di un valore che trascende le singole storie, personali o collettive, che hanno a che fare con la storia del nostro Paese.
Prima posta: affossare l’uso sociale dei bei confiscati alle mafie. Fermare la riforma del codice antimafia (votata alla Camera l’11 Novembre 2015 e giacente in Senato), che non soltanto prevede strumenti a sostegno delle aziende sequestrate capaci di stare sul mercato, ma ribadisce il ruolo dei soggetti sociali ed economici nella gestione di questi patrimoni. Demolire questa prospettiva ha un preciso significato: spingere l’azione dello Stato dentro il perimetro stretto della repressione giudiziaria e amministrativa, anziché tenerlo nel più ampio perimetro della partecipazione civile. E’ la distanza che c’è tra Stato e Repubblica. Fare dei beni sequestrati e confiscati dei Beni Comuni, la cui gestione provvisoria e definitiva sia un fatto sociale permanente (per questo i beni per lo più devono restare al patrimonio indisponibile dello Stato), significa stimolare costantemente l’assunzione di responsabilità dei cittadini, senza deleghe in bianco. Significa fare Repubblica. Significa non doversi augurare, come amaramente diceva Falcone, “un morto eccellente all’anno” per fare bene la lotta alla mafia.
Seconda posta: affossare la professionalizzazione diffusa sulla questione mafie, agitando il tabù del professionismo. Noi abbiamo bisogno eccome di professionalità, cioè di dedizione, studio, esperienze concrete e abbiamo bisogno che queste professionalità siano quanto più condivise, che non siano cioè appannaggio di pochi, ma diventino un elemento normale della formazione culturale e dell’azione sociale. Ma questo costa! Costa tempo: per non essere dei dilettanti da strapazzo, che balbettano saperi sbocconcellati, non sottoposti al vaglio di una critica ragionata, bisogna concentrare risorse (soldi!), scelte di vita, strutture, bisogna consolidare, manutenere, arricchire relazioni per collezionare più punti di vista. Bisogna fare scuola, bisogna coinvolgere atenei, case editrici, artisti e il mondo del lavoro. Bisogna conquistarsi la capacità di interagire con chi rappresenta pro tempore le Istituzioni, da pari, non limitandosi ad applaudire commossi dopo aver sentito una bella relazione.
Terza posta: affossare lo sforzo di connettere la stagione delle stragi, ’89-’94, con il nostro presente. Il legame col nostro presente è duplice. C’è il bisogno di verità e di giustizia su quanto accadde allora: la guerra sarebbe finita (come sostiene qualche accademico) se avessimo seppellito i morti e avessimo liberato i prigionieri. Ma non è così: sono prigionieri di una guerra non finita tutti i sopravvissuti ai propri morti ammazzati, che non sanno chi e perché. Sono prigionieri dell’ingiustizia. Arriviamo al paradosso che sono talvolta proprio gli “imprigionati” al 41 bis, a ricordare agli amici di fuori che loro sono gli unici che hanno pagato col carcere. Il secondo legame con il nostro presente è l’attualità, tutta da esplorare, della rete di relazioni uscita vincente da quella stagione: c’è qualche tessera che brilla, ma per vedere il mosaico bisognerebbe accendere la luce.
C’è un filo che unisce questi tre obiettivi? Si: si chiama normalizzazione. Direbbe qualcuno: in fondo la mafia non è più quella di una volta, potete smobilitare e tornare a casa: missione compiuta! Bravi e mi raccomando: d’ora in poi rispettare la legge e fate il vostro dovere. Tanto basta, titoli di coda. La posta più alta: fare in modo che il rapporto mafie e Stato torni ad essere, nel bene e nel male, un rapporto tra oligarchie e addetti ai lavori, tra pochi insomma. Se poi tra i pochi, finisce qualche testa calda, qualche eroe, che non capisce come stare al mondo, sarà più facile mozzarla, nella costernazione imbecille e impotente dei più. Noi dobbiamo opporci a tutto questo e rivendicare che la sconfitta delle mafie in Italia dipende dall’organizzazione di una forza sociale, adeguatamente attrezzata, capace e resistente. Nessun eroe solitario, puro e duro, può abbattere un sistema di potere e farlo credere è soltanto una illusione, quando non una impostura.
Noi non siamo ne’ puri, ne’ duri, ma cittadini che non hanno dimenticato cosa significa il motto: “L’unione fa la forza”!
Davide Mattiello