Sul riscatto della politica

L’ho scritto per oggi, che sto andando a Roma alla manifestazione. L’Unità l’ha pubblicato, integralmente… Non cambio punto di vista:

3 Settembre 1982 Palermo – 3 Settembre 2015 Roma
la morale della politica sta in ciò che fa

Il 3 Settembre, 1982 a Palermo venivano uccisi il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente Domenico Russo. La manifestazione indetta dal Partito Democratico a Roma per reagire a quanto accaduto in occasione del funerale di Vittorio Casamonica, si terrà proprio il 3 Settembre: la coincidenza impone di guardare all’oggi anche attraverso la lente di quel maledetto 3 Settembre, 1982.
Almeno due connessioni impressionano.
Nell’intervista concessa a Giorgio Bocca il 10 Agosto di quello stesso anno, Dalla Chiesa dirà: “Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla Mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati”
La mafia si sconfigge rendendola inutile. Ecco il cuore della intuizione di Dalla Chiesa, l’essenza della rivoluzione di un’Italia liberata dalle mafie: far funzionare lo Stato. Fare in modo che lo Stato diventi pienamente Repubblica, secondo il dettato della Costituzione. Vale ancora per noi oggi, soprattutto per chi fa politica: fare politica e voler continuare nell’impegno contro le mafie e la corruzione, significa far funzionare lo Stato, erodere il consenso di cui ancora godono questi sodalizi, dimostrando concretamente che esiste una convenienza maggiore nel vivere secondo la legge, anziché secondo la protezione del clan.
La seconda connessione sta nella consapevolezza che il generale manifesta in vita e che le inchieste successive al suo assassinio amaramente confermeranno, della sua specialissima solitudine. Perché c’è una solitudine fisiologica cui va incontro chiunque cerchi di fare bene il proprio dovere istituzionale e c’è una solitudine specialissima: quella indotta in maniera sofisticata dallo Stato medesimo, quando decide di “posare” un proprio servitore. Certo lo Stato è sempre fatto di persone in carne ed ossa, ognuna con una propria personale responsabilità ed è per questo bisogna sempre distinguere e insistere nell’occupare le Istituzioni con persone perbene. Ma dovremmo smettere una volta per tutte di parlare di “pezzi deviati” dello Stato, perché se fossero tali, sarebbero stati prima o poi perseguiti e puniti. Invece. Bisognerebbe forse parlare di “pezzi importanti” dello Stato. Pezzi importanti dello Stato che pur sapendo quanto alto fosse il livello di rischio cui era sottoposto Dalla Chiesa, presero tempo, lasciarono che le cose andassero come dovevano andare: i poteri richiesti dal generale-prefetto non vennero deliberati dal Governo, ma con straordinaria tempestività un attimo dopo il suo assassinio, qualcuno era già entrato nel palazzo della Prefettura di Palermo, aveva aperto la cassaforte e asportato i documenti riservati delle indagini di Dalla Chiesa. La consapevolezza che queste cose nel nostro Paese sono accadute ripetutamente è capillarmente diffusa tra gli italiani e lavora come un gas velenoso e inodore, che ti assale e un poco alla volta ti lascia senza speranza nelle Istituzioni e nella politica. Ecco perché il riscatto della politica in territori divenuti pascoli mafiosi, non può che richiedere un rigore estremo nel separare radicalmente ed esplicitamente, direi pubblicamente, ogni forma di relazione ambigua con persone ed ambienti le cui condotte sono note. Non c’è norma penale o codice etico che tenga nell’imporre questo modo di fare politica, c’è soltanto la coscienza di dover rispondere alla propria comunità e ai cittadini, è quella serissima onorabilità che alcuni hanno pagato con la vita, altri con l’abbandono. Che per chi ama la politica è un modo di morire un poco alla volta.

Davide Mattiello