Ai mafiosi serve un’Europa malata. L’Italia ha una responsabilità epocale.

L’Unione Europea è ad un bivio: di qua il superamento della pandemia e l’avvio attraverso la COFE (la Conferenza sul Futuro dell’Europa) di una nuova fase costituente che rafforzi le sue Istituzioni democratiche, rendendole ancor più adeguate alle sfide globali. Di là il ritardo colpevole nel superamento della pandemia, il fallimento della COFE ed il conseguente probabile declino delle Istituzioni democratiche europee.

Come in ogni partita c’è chi tifa e tira da una parte e chi dall’altra.

Tifano per il declino sicuramente le mafie italiane che si trovano in buona compagnia nel territorio dell’Unione Europea, non essendo la pratica del crimine organizzato una esclusiva italiana e nemmeno lo specifico metodo mafioso.

Secondo il report SOCTA (2017) di Europol, più di 5.000 gruppi di criminalità organizzata sono attualmente sotto indagine in Europa. La criminalità organizzata è guidata dal profitto e le sue attività illegali generano enormi guadagni: i proventi della criminalità organizzata all’interno dell’UE sono attualmente stimati in circa 110 miliardi di euro all’anno. Nell’Unione Europea attualmente solo il 2% circa dei proventi di reato sono congelati e l’1% circa confiscati. Ciò consente ai gruppi della criminalità organizzata di investire nell’espansione delle loro attività criminali e nell’infiltrazione dell’economia legale. Europol stima che tra lo 0,7 e l’1,28% del PIL annuo dell’UE è coinvolto in attività finanziarie sospette. (Fonte tratta dal rapporto FattiperBene pubblicato da LIBERA)

Le organizzazioni criminali di stampo mafioso non sono organizzazioni sovversive, nemmeno quando temporaneamente e strumentalmente ne vestono i panni come nel caso della stagione delle leghe indipendentiste del nostro recente passato. Le mafie sono parassitarie fino a diventare eversive: fiaccano il potere pubblico per poterne abusare, svuotandolo così della propria autentica missione. Se trasferiamo questo principio su scala europea, i conti non tardano a tornare: le mafie non scommettono sulla disgregazione dell’UE, scommettono piuttosto sulla sua debolezza per poter massimizzare i loro profitti illeciti, approfittando di un ecosistema florido ed ingenuo, quando non complice come le storie di Jan Kuciak e Dafne Caruana Galizia suggeriscono.

Le ricchezze accumulate attraverso i traffici illeciti sono un eccellente test. In Italia disponiamo di un’arma micidiale per colpirle: le misure di prevenzione patrimoniali, in forza delle quali accertata una sproporzione tra disponibilità di beni e redditi dichiarati, a certe condizioni, si può procedere al sequestro che diventerà confisca definitiva se colui che lo ha subito non riuscirà a dimostrare la provenienza lecita di quelle ricchezze. Dunque: sequestro in assenza di condanna penale ed inversione dell’onere della prova per evitare che il sequestro diventi confisca. Una rivoluzione! Che infatti costò la vita al suo profeta: Pio La Torre. L’Unione Europea non possiede un’arma simile, ma soltanto la più tradizionale confisca penale, quella cioè che colpisce mezzi e profitti di un reato commesso e per il quale si è stati condannati in sede penale. Anche il regolamento europeo del 2018, entrato da poco in funzione, che riguarda la reciprocità dei provvedimenti di congelamento (sequestro) e confisca, pur importante, fa riferimento in sostanza alla confisca penale. Questo iato tra normativa italiana e normativa europea è una buona misura della sfida che abbiamo davanti: ad oggi infatti ai mafiosi italiani conviene assai portare i soldi fuori dall’Italia e conviene ancor di più che l’Europa non cambi idea sulle misure di prevenzione patrimoniali. L’Italia oggi ha un compito in più: aiutare l’Unione Europea a non sbagliare strada.

Europa e corruzione

A cento anni dalla Marcia su Roma, gli “eredi del Duce” sono al Governo. A cento anni dalla nascita di Berlinguer la sinistra in Italia ed in Europa è scossa dal prepotente ritorno della “questione morale”. In questo quadro la notizia della sentenza definitiva di condanna per concorso esterno in associazione mafiosa a carico di D’Alì, già senatore e potente sotto segretario all’Interno, incoraggia gli sforzi di chi non si sia fino a qui arreso alla disperazione.

A conclusione di un lungo e tormentato itinerario giudiziario, è dunque finalmente arrivata per D’Alì la certificazione di aver sostenuto per decenni Cosa Nostra, mettendo a disposizione del sodalizio criminale risorse economiche e politiche. Come ricorda sul suo blog Rino Giacalone, attento e tenace giornalista trapanese che alla vicenda ha dedicato anni di duro lavoro, le cose che capitano nel trapanese si capiscono almeno a cinquant’anni di distanza, tale era ed in parte è ancora, la ragnatela di poteri occulti che hanno nel trapanese un solido baricentro. Vale per la storia criminale di D’Alì, che affonda le sue radici nel potere esercitato dallo zio omonimo tramite la Banca Sicula, che diventerà successivamente la rampa di lancio della carriera del D’Alì oggi definitivamente condannato. Un potere che intreccia persino quello, in allora addirittura sottoposto dei Messina Denaro, campieri nelle terre dei D’Alì. Vale parimenti per chi di quel potere è stato in qualche modo vittima, penso alla vicenda che riguarda Ciaccio Montalto (nel 2023 saranno 40 anni dal suo assassinio), alla quale si legano quelle di un altro magistrato ingovernabile, Carlo Palermo, e dei giornalisti Mauro Rostagno ed Ilaria Alpi. Una “patente” di mafiosità attribuita dallo Stato a carissimo prezzo e basterebbe qui ricordare le fatiche e le vere e proprie ingiustizie patite da servitori leali e capaci dello Stato come il prefetto Sodano (purtroppo deceduto anni fa) e l’allora capo della squadra mobile Linares (oggi meritatamente a capo del Servizio Anticrimine del Dipartimento della Polizia di Stato). Ma attribuita.

Certo, restano nella testa le parole amare di Alfredo Morvillo, pronunciate questa estate alla presentazione del libro dedicato alla sorella Francesca, che alla luce della evidente, perdurante, influenza politica (soltanto in Sicilia?) di personaggi altrettanto “patentati”, si domandava se Giovanni Falcone e Francesca non fossero morti in vano. Ma credo che un modo per onorare la memoria grata di tutti questi sacrifici sia proprio quella di non smettere di lottare perché la democrazia mantenga la sua promessa emancipante e non si trasformi in una farsa, buona soltanto per pochi privilegiati. Ed è anche per questo che tornando da dove sono partito, auspico ancora una volta uno scatto in avanti della politica autenticamente democratica e che quindi non può che essere europeista. Di fronte alla morsa che si sta stringendo attorno alle Istituzioni comunitarie non c’è più tempo da perdere. E’ una morsa che trova forza da un lato nell’illusorio e pericoloso rigurgito nazionalista, che tra l’altro ha portato al Governo in Italia Giorgia Meloni, e dall’altro nella sovranità senza territorio esercitata dai grandi gruppi di potere transnazionali, che agiscono sapientemente appoggiandosi ora a regimi autoritari ora alla più becera delle corruzioni. Che fare? Bisogna avere il coraggio di trasformare l’Unione Europea in una Repubblica Federale, fondata su uguali diritti ed uguali doveri. Bisogna che questo tema caratterizzi la prossima campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo, perché non potrà che essere il prossimo Parlamento a condurre questa trasformazione, attribuendosi un compito pienamente costituente. Il Parlamento europeo infatti non ha eguali (e nemmeno precedenti) sul piano della legittimazione democratica. Di fronte alla forza corruttrice delle grandi lobby infatti, non basta rafforzare i presidi di prevenzione e contrasto amministrativi o giudiziari, non bastano, per intenderci, ne’ la Procura Europea, ne’ la Commissione, serve un rinnovato patto civile, che sappia rigenerare la credibilità delle Istituzioni democratiche.

CEDU in antimafia

Una campagna di comunicazione molto fortunata di una piccola ma agguerrita agenzia torinese di qualche anno fa, recitava: Un pompelmo è un limone a cui è stata data un’opportunità!

Vale anche per le mafie.

I mafiosi non sono esseri umani “antropologicamente modificati” (come quel grande statista milanese, consegnato agli onori del Famedio, sosteneva pubblicamente dei magistrati che si ostinavano ad indagare, insinuando che fossero tutti e soltanto dei degenerati), i mafiosi sono criminali organizzati, con una spiccata vocazione politica, che diventano una minaccia eversiva per la democrazia quando colgono opportunità che non andrebbero offerte.

Così come non andrebbero offerti “segnali” di disarmo unilaterale da parte dello Stato sugli abusi del potere: cos’altro è l’abolizione dell’abuso di ufficio?

Nemmeno la tracotanza violenta dei narcos centro e sud americani, che ha dato una nuova ed impressionante prova di sè in Equador qualche giorno fa, deve far pensare che “quei” mafiosi siano antropologicamente diversi dai “nostri”. Non sono diversi, sono soltanto diventati “pompelmi” grazie ad una serie di opportunità offerte dal contesto istituzionale ed economico, opportunità che sono state spietatamente colte. La ferocia eversiva di quei cartelli infatti non è diversa da quella espressa negli anni ’80 e ‘90 dalla Cosa Nostra siciliana, capace di decapitare letteralmente ogni vertice politico ed istituzionale che rappresentasse un ostacolo oppure un tradimento. La violenza brutale con la quale quei cartelli mantengono la propria supremazia nel costante conflitto con altri cartelli concorrenti non ha nulla di diverso da quella adoperata all’interno della ‘ndrangheta calabrese o delle camorre in Campania o della mafia garganica. Tra i tanti film dell’orrore che si possono facilmente ripercorrere per averne un saggio, ci sono le deposizioni del collaboratore Andrea Mantella, killer di ‘ndrangheta, testimone per l’accusa nel processo Rinascita Scott: un orrore che dalle Serre del vibonese arriva fino alle porte di Torino.

Poche cose al Mondo sono più difficili che convincere un “pompelmo” a tornare “limone”: l’Italia c’è riuscita, a carissimo prezzo e per questo da anni strumenti e strategie inventati ed applicati nel nostro Paese sono studiati in tutto il Mondo ed all’interno dell’Unione Europea.

Tra le mosse decisive per produrre questa storica “riduzione”, prodromica alla definitiva eliminazione per spremitura, c’è stata l’introduzione delle misure di prevenzione patrimoniali, che danno il potere allo Stato di individuare e neutralizzare (attraverso sequestro e confisca) patrimoni di provenienza illecita, a prescindere da una condanna penale.

Oggi come è noto, l’intero sistema delle misure di prevenzione patrimoniali è sul banco degli imputati nientemeno che a Strasburgo: la Corte Europea dei Diritti Umani ha chiesto al Governo italiano di spiegare come queste pratiche siano compatibili con i diritti umani fondamentali fissati dalla Convenzione europea. Questa vicenda si sta consumando in un silenzio assordante, mentre andrebbe accompagnata da una adeguata discussione pubblica.

Mi risulta che finalmente la Commissione parlamentare antimafia abbia acquisito la memoria che il Governo italiano a fine Novembre aveva inviato alla CEDU per rispondere alle contestazioni. Perché non adoperarla come punto di parenza per un confronto pubblico?

Giusto per mettere le carte in tavola.

Magari cominciando a rispondere ad una questione fondamentale: lo Stato ha o non ha un preciso dovere di agire in prevenzione della commissione di reati?

Consideriamo la violenza sulle donne. C’è qualcuno che pensa che lo Stato debba limitarsi ad assicurare alla giustizia gli autori di femminicidio, senza fare di tutto perché al potenziale autore dell’orrendo crimine sia impedito in ogni modo di realizzare il proprio scopo?

La prevenzione si traduce nel potere dello Stato di impedire al potenziale criminale di avvicinarsi alla vittima, di abitare in una certa Città, di avere il porto d’armi eccetera. Tutti provvedimenti che impattano evidentemente sulla libertà personale del possibile autore del delitto. C’è qualcuno che a questo punto sarebbe pronto ad insorgere sostenendo che provvedimenti come questi, che impattano sulla libertà personale, essendo afflittivi, non possano che essere considerati delle pene e che per questo siano legittimi soltanto se applicati all’esito di un processo penale? Cosa ne direbbe Giulia Bongiorno, paladina del “Codice Rosso”?

Perché questo è il cuore del poco sofisticato attacco alle misure di prevenzione patrimoniali che si sta consumando in un silenzio assordante.

A meno di convincersi che sia necessario agire in prevenzione nei confronti di un marito violento e non nei confronti delle organizzazioni mafiose, perché a differenza del primo, queste non generano più alcun allarme sociale.

Parafrasando l’indimenticato vaticinio di quel ministro berlusconiano: con un marito violento non si può convivere, con le mafie invece sì.

 

 

 

 

AGI: Mattiello, dopo parole Draghi servono scelte coraggiose

L’AGI riprende le mie parole, pubblicate da I Blog de Il Fatto Quotidiano.

(AGI) – Roma, 25 mag. – “Perche’ le parole di Draghi non siano retorica compiacenza, servono scelte urgenti e coraggiose, altrimenti avranno avuto ragione quei magistrati che stanno lanciando allarmi che paiono inascoltati”. Lo scrive su un blog pubblicato sul sito del “Il Fatto Quotidiano”, Davide MATTIELLO, attivista antimafia ed ex deputato.

MATTIELLO cita le dichiarazioni del presidente del Consiglio intervenuto a Milano al convegno sul ruolo della finanza nella lotta alla mafia: “Siamo all’avanguardia nella legislazione antimafia e nella protezione dei testimoni e dei loro familiari, uno strumento fondamentale per la giustizia sin dai tempi del maxiprocesso”.
“Vero. Forse il presidente Draghi – scrive l’ex deputato – utilizzando la parola ‘testimoni’ ha voluto fare riferimento tanto ai ‘testimoni di Giustizia’ cioe’ a quelle (poche!) persone perbene che, avendo subito un reato di mafia o avendone visto commettere uno, hanno deciso di denunciare anziche’ abbassare la testa o girarla dall’altra parte, quanto ai ‘collaboratori di giustizia’ cioe’ a quei delinquenti patentati – continua – che decidono di negoziare con lo Stato uno scambio tra informazioni utili alle indagini e benefici carcerari, strumento quest’ultimo fortemente voluto da Falcone, che ne affino’ l’efficacia collegandolo a precise scelte di politica carceraria (4 bis e 41 bis), e di estensione della confisca di prevenzione”.

Secondo MATTIELLO “questi strumenti da un lato non funzionano come dovrebbero (troppi ‘testimoni-testimoni’, vittime di estorsione, stanno pagando un prezzo insopportabile a causa delle tortuosita’ della burocrazia) e dall’altra rischiano di essere azzoppate da ‘riforme’ annunciate o mezzo-varate?”.
Infine, “l’orizzonte verso il quale muoversi per Draghi – conclude l’attivista antimafia – pare essere sintetizzato in questo passaggio: ‘semplifichiamo le procedure, miglioriamo il sistema di contrasto alle infiltrazioni, rafforziamo i controlli'”. (AGI)Nat

La politica piemontese censuri il ricorso alla sottovalutazione ed alla ingenuità

L’arringa dell’avvocato Piazzese dovrebbe far riflettere la politica piemontese.

Almeno quella democratica. Almeno quella che avversa la mafia, i suoi voti, il suo potere di condizionamento e di intimidazione. Tanto più ora che stanno per andare ad elezione per il rinnovo di Sindaco, Giunta e Consiglio ben 93 Comuni, tra i quali tre capoluoghi come Asti, Alessandria, Cuneo e per quanto riguarda l’area metropolitana torinese, Comuni come Chivasso e Caselle. 

L’avvocato Piazzese difende Roberto Rosso dall’accusa di essersi accordato con due boss di ‘ndrangheta del calibro di Onofrio Garcea e Franco Viterbo per la campagna elettorale delle regionali del 2019. 

Ne fa una cronaca su La Stampa Giuseppe Legato, alla quale volentieri rimando (qui).

Sarà ovviamente il Tribunale a valutare sul piano penale gli argomenti adottati dall’avvocato Piazzese per salvare il suo assistito dalla condanna, ma rilevano per una più ampia riflessione perché da un lato ripropongono la solfa della “sottovalutazione”, della “ingenuità”, dall’altra aprono il vaso di pandora delle altrui condotte, in particolare quella di Bertot, ritenute, dall’avvocato, assai più gravi di quelle di Rosso eppure diversamente considerate ed in fine illuminano ancora una volta la vicenda di Domenico Garcea per il quale in verità sarebbero stati raccolti i voti dai cugini mafiosi. Povero Rosso, verrebbe da dire: cornuto e mazziato. Accusato di voto di scambio, lui che i voti li avrebbe pagati per davvero, e per di più frodato dai mafiosi (altro che “uomini d’onore”!!) che avrebbero preso i soldi, ma poi avrebbero votato e fatto votare l’attuale vice presidente vicario del Consiglio Comunale di Torino e membro della Commissione legalità, Domenico Garcea, mai indagato per questi fatti. 

La politica piemontese, a prescindere dalle valutazioni dei Tribunali, dovrebbe una volta per tutte censurare il ricorso alla “sottovalutazione” ed alla “ingenuità”. Dopo l’assassinio di Bruno Caccia nel 1983, dopo l’ondata di inchieste e condanne innescate più recentemente dall’operazione Minotauro nel 2011, non è possibile fare spallucce: la mafia c’è, fa grassi affari non soltanto nel campo dell’edilizia, cerca di condizionare le campagne elettorali ed ha agganci altolocati anche con ambienti insospettabili. Bisogna pretendere un livello altissimo di attenzione nella individuazione delle candidature e nella conduzione delle campagne elettorali. Cosa pensano di fare i partiti (movimenti inclusi) in vista delle comunali?

Infine, non so se l’arringa dell’avvocato Piazzese servirà a scagionare Roberto Rosso dalle accuse, ma mi pare che intenda porre almeno un dubbio di carattere generale: come mai condotte apparentemente analoghe, hanno ricevuto attenzioni tanto diverse? Eppure la legge dovrebbe essere uguale per tutti e l’azione penale obbligatoria. 

12 Marzo: a 30 anni dall’assassinio di Salvo Lima, qualche considerazione sul voto di scambio politico mafioso

Quando venne avvertito dell’omicidio di Salvo Lima, Giovanni Falcone commentò: “Ora può succedere di tutto”.

Non si sbagliò nemmeno in quella circostanza Giovanni Falcone, che intuì subito la portata di quel fatto: fu l’inizio della vendetta di Cosa Nostra devastata dalla sentenza di Cassazione del 30 gennaio 1992, che confermando l’impianto accusatorio del maxi processo, sgretolava il mito della impunità di Cosa Nostra e svelava anche il logoramento definitivo del rapporto tra Cosa Nostra e un pezzo di Stato.

In quella stessa tragica estate il Parlamento aggiunse al Codice Penale l’art. 416 ter per punire espressamente la relazione tra mafioso e politico nel momento delle elezioni: il decreto legge dell’8 Giugno, veniva convertito in legge il 7 Agosto, con l’Italia tramortita dalle stragi di Capaci e Via D’Amelio. Il reato di voto di scambio politico mafioso veniva “infilato” nel Codice Penale esattamente dieci anni dopo che il Parlamento a fatica ci aveva infilato il 416 bis, anche in quella circostanza soltanto dopo i brutali assassini di Pio La Torre e di Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Una norma importante per stigmatizzare l’essenza stessa della pericolosità delle mafie: l’eversione dell’ordine democratico attraverso il sistematico inquinamento dell’esercizio democratico del potere, a cominciare dalla selezione dei rappresentanti del popolo sovrano.

Una norma intelligente perché capace di isolare tra le condotte che alimentano la forza delle mafie, quella più odiosa cioè quella del politico che pur di vincere ne evoca e ne legittima il potere.

Una norma scritta in maniera poco efficace (sarebbe interessante recuperare gli atti parlamentari, ma non è questa la sede) chissà se per superficialità, fretta o malizia soprattutto perché la consumazione del reato avrebbe preteso di essere dimostrata dalla prova della “dazione di denaro”. Ora quale politico può essere così scellerato da mettere in una busta il prezzo del servizio mafioso di procacciamento di voti? Ed infatti dal 1992 pochi furono quelli condannati per 416 ter!

A partire dal 2013 e fino al 2019 l’articolo è stato sottoposto ad una profonda revisione parlamentare attraverso successivi interventi che lo hanno modificato significativamente, rendendolo complessivamente più adeguato. Di questo lungo travaglio politico mi sono trovato ad essere uno dei protagonisti, essendo stato il relatore del provvedimento per la maggioranza alla Camera tra il 2013 ed il 2017. Le pressioni per fare della riforma un radicale annacquamento furono formidabili e credo non meno impressionanti furono le tensioni che portarono alle (per ora definitive) modifiche intervenute nella XVIII Legislatura ed entrare in vigore a Giugno del 2019. Non è questa la sede per ripercorrere i motivi e gli effetti dei vari interventi, c’è però lo spazio per chiarire ad ogni buon conto almeno due caratteristiche della fattispecie che dal 2014 NESSUNO ha più rimesso in discussione. La prima: l’allagamento della “platea” delle condotte penalmente rilevanti ovvero il reato si intende commesso non soltanto quando in cambio dei voti viene dato del denaro, ma quando in cambio dei voti il politico offre qualsiasi tipo di utilità al mafioso. La seconda è altrettanto importante e consiste nella anticipazione della consumazione del reato al momento dello “scambio delle promesse”, cioè al momento dell’accordo tra le parti. In altri termini: provare la successiva dazione di denaro o la effettiva realizzazione di altre utilità può soltanto spingere più in avanti il momento della conclusione della condotta criminale (soprattutto a beneficio del calcolo della prescrizione), ma il reato è perfettamente posto in essere quando le parti si accordano nella consapevolezza del reciproco ruolo ricoperto in commedia. 

Ultima considerazione: nell’accordo tra le parti è sempre chiaro cosa debba fare il mafioso, meno chiaro cosa dovrà fare il politico soprattutto se eletto anche grazie ai voti del mafioso. Il concetto di “altre utilità” è ampio, reso ancora più ampio dal concetto di “disponibilità” introdotto a Giugno del 2019 e sta sicuramente alla sagacia di magistrati ed investigatori coglierne la portata, declinando la norma astratta e generale, dentro ai fatti concreti e sorprendenti nei quali ci si imbatte. Su questo ultimo punto mi permetto, in conclusione, di sottoporre al pubblico giudizio una modesta ipotesi: qualora il politico che beneficia dell’accordo elettorale fosse un noto parente del noto mafioso che si attiva per la sua campagna elettorale, l’utilità conseguente alla sua elezione non sarebbe dimostrata “in re ipsa”, dal fatto stesso che il cognome della nota famiglia mafiosa riceverebbe il blasone di uno scranno istituzionale? Una sorta di complemento oggetto interno, tipo “ho sognato un sogno”, che tradotto nell’onirico mafioso potrebbe suonare: “Ho sognato mio cugino Sindaco!”. E forse non è soltanto la trama di un film di Cetto Laqualunque!

Domenico Garcea: facciamo chiarezza attraverso le carte

Abbiamo posto semplicemente (!) una questione di opportunità politica e di coerenza morale, abbiamo auspicato semplicemente (!) una presa di posizione netta. Abbiamo ottenuto reazioni spudoratamente mendaci. Ma c’è sempre tempo e forse una più meditata lettura di questi stralci potrà aiutare:

 

Per approfondire il caso leggi i miei precedenti articoli

 

 

Garcea: il campo che ho indicato è quello del politicamente inopportuno e del moralmente ripugnante

Sulla infausta nomina del Consigliere comunale Domenico Garcea nella Commissione speciale “Legalità” del Comune, alcuni ulteriori spunti di riflessione. E qualche domanda. 

A coloro che si sono indignati (!) per quello che ho scritto, riempiendosi la bocca di presunto “garantismo” rispondo: che c’entra! O siete ignoranti o siete in mala fede. Il “garantismo” attiene al campo del penalmente rilevante che io ho esplicitamente escluso rispetto alla vicenda, fino a prova contraria. Non è una colpa di per sè avere un parente delinquente. Il campo che ho invece indicato è quello del politicamente inopportuno e del moralmente ripugnante.

A coloro che mi hanno chiesto come mai sollevassi questa questione di opportunità ora e non quando Domenico Garcea è stato nominato vice-presidente del Consiglio comunale rispondo: l’inopportunità politica è relativa alla specifica responsabilità ricoperta. Di cosa si occuperà la Commissione speciale “Legalità” del Comune di Torino? Anche di studiare le più rilevanti inchieste giudiziarie aperte negli ultimi anni, che riguardano precisamente la presenza della ‘ndrangheta sul nostro territorio, gli affari e le collusioni con la politica, al fine di elaborare ipotesi di provvedimenti utili a prevenire e contrastare il fenomeno. Tra queste inchieste c’è sicuramente quella composta da “Carminius” e “Fenice”, nella quale si ritrovano proprio i protagonisti di questa vicenda. 

A coloro che mi hanno chiesto: ma che ti aspetti? Che Domenico Garcea venga escluso dalla Commissione? Rispondo: no, mi aspetto prima di tutto una cosa molto più semplice, presupposto di ogni altra eventuale considerazione e cioè che dica la verità, pubblicamente, come si conviene ad un politico che non voglia essere tacciato di reticenza. La verità su cosa? E così arrivo alle domande.

Domenico Garcea è cugino di Onofrio Garcea, patentato dalla Cassazione come ‘ndraghetista di primo piano?

Domenico Garcea ha uno zio che si chiama nello stesso modo del cugino, Onofrio Garcea, fratello del padre Raffaele: in almeno due post ha fatto riferimento a questo parente, come a suggerire uno “scambio di persone”?

Domenico Garcea intende dissociarsi dalle condotte criminali del cugino, condannandole apertamente?

Domenico Garcea esclude che il cugino si sia interessato alle sue campagne elettorali?

Domenico Garcea cosa pensa della ‘ndrangheta?

A cosa servirebbero risposte chiare a queste domande? A preservare la credibilità della Istituzione, in questo caso la Commissione speciale “Legalità”, perché la credibilità delle Istituzioni è fatta dalla reputazione di chi le incarna temporaneamente e la reputazione di una persona si nutre anche delle posizioni assunte pubblicamente su temi delicati.

Domenico Garcea decida se ispirarsi a Peppino Impastato o a Lucia Riina.

Inopportuno che Domenico Garcea faccia parte della Commissione Legalità del Comune di Torino

Dare conto pubblicamente delle proprie posizioni non va più di moda, a quanto pare. 

Un buco nell’acqua provare a chiedere a Salvini se ritenga di prendere le distanze dall’amico Putin, idem quando si chiede al Presidente Cirio di censurare le posizioni assunte dall’assessore Marrone a supporto dei separatisti filo russi del Donbass…Chissà se si riuscirà a cavare una parola chiara almeno dal consigliere comunale Domenico Garcea, eletto a Torino nelle fila di Forza Italia ed appena nominato componente della Commissione consigliare speciale “legalità” del Comune.

Il Consigliere Domenico Garcea, mai nemmeno indagato per i fatti a cui mi riferisco, è cugino di Onofrio Garcea, condannato in primo e secondo grado per voto di scambio politico mafioso in esito del processo celebrato con rito abbreviato, scaturito dalla indagine denominata Fenice (proprio la stessa che ha portato all’arresto dell’Assessore regionale Roberto Rosso), che ha avuto ad oggetto la campagna elettorale per le regionali del 2019, alle quali Domenico era stato candidato sempre da Forza Italia. Allora Domenico non venne eletto, piazzandosi alle spalle di Tronzano con un ragguardevole numero di preferenze: oltre 700.

È un fatto che Onofrio Garcea sia ‘ndraghetista patentato dalla Cassazione, che ha reso definitiva la condanna a 7 anni e 9 mesi in esito al processo Maglio 3 celebrato a Genova, ritenendolo capo dell’articolazione genovese della ‘ndrangheta fino al 2012.

È un fatto, chiaramente deducibile dalle motivazioni della sentenza di primo grado che Onofrio Garcea ed il suo sodale criminale Francesco Viterbo si interessarono assai alla campagna elettorale di Domenico.

È un fatto che Domenico abbia una sorella, Chiara.

È un fatto che Chiara, sorella di Domenico e cugina di Onofrio fosse anche (almeno al tempo) la fidanzata di quest’ultimo.

È un fatto che Chiara si sia data un gran da fare per la campagna elettorale del fratello e che ne abbia parlato più volte con il cugino-fidanzato.

È un fatto che Chiara fosse non soltanto consapevole della caratura criminale del cugino-fidanzato, ma che ne fosse tanto orgogliosa. Agli atti resta la più iconica dichiarazione d’amore che in materia ci si possa aspettare di leggere: “Io sono andato a prendermi un uomo con i coglioni! Un uomo che sapevo che ci aveva a che fare con chi ci aveva a che fare! Eh! Un uomo che quando entrava in un locale, sapevo che gli aprivano le porte! Non un coglione del cazzo! (…) Ascolta sei tu quello che fa lo ‘ndranghetista!” Puro amore insomma!

Non risulta alla Procura che Domenico fosse a conoscenza del sostegno realizzato dal cugino, sollecitato dalla sorella e per questo Domenico non è stato, ripeto, nemmeno indagato.

Tutto ciò posto, abbiamo imparato che il perimetro del penalmente rilevante NON coincide con quello del politicamente inopportuno e NON coincide con quello del moralmente ripugnante.

I giudici fanno il loro mestiere che non risolve il mestiere di chi fa politica.

Considerati gli stretti legami famigliari tra Onofrio, Chiara e Domenico Garcea a me pare inopportuno che proprio quest’ultimo sia stato chiamato a comporre la Commissione Legalità del Comune di Torino. 

Sarebbe quanto meno necessario che Domenico prendesse pubblicamente le distanze da questi fatti, condannandoli esplicitamente: ad un politico è legittimo chiedere la parola ed il politico ha sempre la responsabilità di scegliere tra reticenza e chiarezza. 

Caro Presidente Mattarella

Caro Presidente Mattarella,
così alla fine sarà lei a rappresentare gli italiani il 23 Maggio e poi il 19 Luglio, durante le commemorazioni che si terranno per i trent’anni dalle stragi del 1992: grazie (anche per questo)!
La rabbia, lo smarrimento, la paura che pervasero l’Italia dopo quei terribili attentati, segnano anche questo tempo, pur avendo oggi motivi differenti. Motivi che a Lei sono ben chiari, tanto da essere stati determinanti nel farle accettare la rielezione, come lei stesso ha voluto sottolineare con le sue prime parole.
A pagare il prezzo più alto di questa congiuntura sono i giovani ed i giovanissimi.
I bambini che quasi non ricordano più come era stare senza mascherina, gli adolescenti che soffrono di forme di ansia sempre più preoccupanti, i giovani che cercano di affacciarsi al presente, sperimentando con fatica il proprio protagonismo.
Sono certo che un posto nelle sue riflessioni in vista del discorso che terrà per il suo insediamento ce lo ha Lorenzo Parelli, il diciottenne morto in fabbrica nel suo ultimo giorno di alternanza scuola-lavoro e probabilmente ce lo hanno anche i tantissimi ragazzi e le tantissime ragazze che nei giorni successivi sono scesi in piazza con lo slogan “Potevo essere io”, o che hanno occupato le scuole, per chiedere un maggior rispetto delle loro vite e delle loro legittime aspirazioni.
Manifestazioni segnate in diversi casi da tensioni con le Forze dell’Ordine che hanno reagito con modalità parse a molti sproporzionate e dunque incomprensibili.
Sono situazioni che richiedono il massimo dell’attenzione perché ne va della qualità della democrazia presente e futura, come la storia della nostra giovane Repubblica ci dovrebbe avere già insegnato. Esiste un equilibro delicato tra il rispetto delle regole e l’obiezione, tra il far rispettare le regole e l’abuso di potere, tra la libertà di ciascuno e la prepotenza di qualcuno. Un equilibrio che va rifondato ad ogni passaggio di testimone generazionale e che comunque non è mai dato una volta per tutte, perché sempre mutano le circostanze e gli “ecostitemi” culturali. Per chi oggi è giovane in gioco c’è il rapporto con le Istituzioni, il rapporto con il principio di legalità, la capacità di stare in un modo o in un altro dentro il conflitto per la gestione del potere pubblico, insomma: il modo con il quale si diventa cittadini.
La democrazia emancipante fondata dalla nostra Costituzione richiede a tutti lo sforzo di tenere insieme il valore delle regole con la capacità di innovarne significato e forma, senza tabù. In questo senso tanto sono preziose le regole, quanto lo sono le “eccezioni”, cioè le manifestazioni di dissenso, financo di disobbedienza civile, se con senso di responsabilità cercano di traghettare il “già” verso il “non ancora”. Senza questa tensione non sarebbe stato possibile nemmeno organizzare il pool antimafia di Palermo, in un momento storico nel quale l’ordinamento non consentiva in alcun modo che magistrati titolari di inchieste differenti potessero condividere informazioni riservate. Ma la necessità di organizzare pool di magistrati era ineludibile a causa della violenza con la quale si manifestavano fenomeni criminali come il terrorismo brigatista e la mafia, almeno se ne avessero ammazzato uno, gli altri avrebbero potuto andare avanti. E così si fece, fino a quando la regola non cambiò. Fu anche grazie a questa “disobbedienza civile” che si riuscì ad istruire il maxi processo contro Cosa Nostra, che proprio il 30 Gennaio del 1992 vide la sua consacrazione da parte della sentenza definitiva della Cassazione, che accolse in toto la validità dell’impianto accusatorio e consentì di perfezionare la prima grande vittoria dello Stato sulla mafia.
Lei Presidente è anche per questo la persona giusta al posto giusto: saprà senz’altro trovare le parole più adatte ed ha l’autorevolezza per farle ascoltare. Con lei si può riannodare il filo del discorso democratico con una intera generazione che ha fame di punti di riferimento credibili.